“The counts of Quirra in sardinian 16th century: Cagliari, the St. Francis of Stampace and a new proposal for Matteo Pérez da Lecce”
“Los Condes de Quirra en Cerdeña durante el siglo XVI: Cagliari, San Francisco de Stampace y una nueva atribución a Mateo Pérez de Lecce”
Marco Antonio Scanu[1]
ISSN: 2340-843X
Recibido: 10-05-2020
Aceptado: 19-08-2020
Resumen
El artículo trata de reconstruir algunas circunstancias relacionadas con los condes de Quirra (Cerdeña) a lo largo del siglo XVI, empezando por Guglielmo Ramón de Carroz (Centelles), autor de un legado para el encargo de un retablo en la iglesia de S. Francisco de Stampace de Cagliari. Identificada la obra con la Pala de San Cristóbal, que ahora forma parte de las colecciones de la Pinacoteca Nazionale de la misma ciudad, a través de la reconstrucción del contexto sociocultural y el análisis de las tablas, el autor del estudio propone la atribución del políptico al pintor Matteo Pérez de Lecce.
Palabras clave: condes de Quirra, Carroz, Centelles, San Francisco de Stampace, Cagliari, Matteo, Pérez de Lecce.
Abstract
The article tries to reconstruct some circumstances related to the counts of Quirra (Sardinia) during the 16th century, starting with Guglielmo Ramón de Carroz (Centelles), author of a bequest for the commission of an altarpiece in the church of St. Francis de Stampace in Cagliari. Identifying the work with the Altarpiece of St. Christopher, which is currently part of the collections of the National Art Gallery of the same city, through the reconstruction of the socio-cultural context and the analysis of the panels, the author of the study proposes the attribution of the polyptych to the painter Matteo Pérez da Lecce.
Keywords: counts of Quirra, Carroz, Centelles, St. Francis of Stampace, Cagliari, Matteo, Pérez da Lecce.
Guglielmo Raimondo Carroz e il retablo per l’altar maggiore del San Francesco di Stampace
Le beghe legali, tragicamente subite dalla contessa Violante (II) Carroz per decenni, continuarono nei riguardi dell’erede universale, suo nipote Guglielmo Raimondo de Centelles[2], e i voluminosi incartamenti dovettero confluire al cospetto del nuovo monarca, dopo la morte di Ferdinando il Cattolico: fu Carlo V ad emettere una sentenza definitiva il 2 gennaio 1520, riconoscendolo come legittimo conte di Quirra. Costui, alla morte di suo padre, poté sommare anche il titolo di barone di Centelles[3], assumendo una fisionomia politica e un ruolo militare di tutto rispetto, acquisito per fatti memorabili. In seguito alla rimozione da capitano del ‘regno’ di Bugia di Gonzalo Mariño, Guglielmo Raimondo Carroz, in data 22 marzo 1515, venne nominato alcaide e capitano di quella città[4], situata sulla costa mediterranea dell’Africa e attualmente facente parte dell’Algeria[5]: dopo diversi mesi di assedio da parte delle truppe del terribile corsaro Barbarossa, all’imbrunire del 25 novembre, iniziò un attacco che le truppe del re d’Aragona affrontarono con grande valore, facendo allontanare le forze islamiche grazie al soccorso offerto da parte del viceré di Maiorca, Miguel de Gurrea[6].
Dopo un primo, rocambolesco accordo matrimoniale con una Rocabertí, Guglielmo Raimondo sposò Joana de Pinós y de Fenollet, figlia del visconte di Canet e d’Illa e barone di Milany. Visse di preferenza nella penisola iberica (le residenze di riferimento erano quelle di Barcellona e di Centelles, dove la famiglia ostentava una grandeur non comune, sia nelle reiterate iniziative edilizie che nei beni suntuari degli interni, fra cui pavellons o cobricels, retaules, caixes, arquimeses, rics cortinatges, brocats, velluts, […] onze catifes, divuit guadamassils i differents drap de ras […] amb escenes de cavalleria, de guerra, de papes, de reis, de reines, d’animals o de la resurrecció de Crist. A més, també s’hi trobava un arnés de justa reial, l’armadura per lluir-se en un torneig a cavall[7]). A Cagliari possedeva non solo il castello di San Michele ma anche un grande palazzo, con altre pertinenze tutt’attorno, nei pressi dell’antico quartiere ebraico. La lontananza non impediva al conte di Quirra di interessarsi alla difesa dell’isola dal pericolo turco e dalle razzie dei pirati ‘barbareschi’, sempre alle prese con attacchi lampo alle coste sarde. Per questo motivo, nel 1545, giunse a candidarsi per l’incarico di ammiraglio, senza riuscire in quell’intento. Sappiamo anche che un suo parente, fra Ángel de Centelles, cavaliere di San Giovanni di Gerusalemme, venne catturato dai Turchi, trattenuto a Costantinopoli e, successivamente, riscattato. Nel 1555, Ángel, scrisse a Napoli un memoriale, narrando di un progetto di conquista della Sardegna da parte di Turchi e Francesi alleati, fortunatamente mai andato a segno[8].
Guglielmo Raimondo morì il 12 giugno 1565[9], trasmettendo le proprietà al suo unico figlio legittimo Luigi. Già vedovo, aveva lasciato traccia di sé a Cagliari, con un’importante donazione al San Francesco di Stampace: in data 2 ottobre 1549, in previsione della realizzazione di un retablo per il presbiterio della chiesa - dove riposavano tutti i parenti di sua zia, cui doveva una parte importante delle sue fortune - stabiliva una rendita annuale di 25 ducati d’oro, di cui i frati avrebbero goduto (ma con finalità esclusiva della realizzazione del retablo) per un numero imprecisato di anni[10]. Si ha modo di dedurre che i frati dovettero attendere diverso tempo per accumulare la cifra necessaria per procedere con la commissione. Peraltro, non possiamo dubitare del fatto che a questo genere di lasciti, prima o poi, venisse dato compimento[11]. D’altra parte, sappiamo che il retablo voluto da Guglielmo Raimondo, probabilmente in seguito al passaggio del feudo di Quirra ai Borgia (1674) venne sostituito, nel 1682, con una nuova commissione agli artisti Juan Gabanellas (scultore) e Galçeran Seguer (doratore), che rimase a presiedere l’altar maggiore fino al 1833[12].
Alla ricerca del polittico cinquecentesco
A questo punto ci si chiede: che fine avrà fatto il retabulum o polittico commissionato dai frati con il denaro del conte Guglielmo Raimondo Carroz? Che il lascito abbia avuto in qualche modo esito ci è assicurato dalla traditio subita dall’atto del 1549, che conosciamo attraverso una copia, realizzata il 29 dicembre 1600, a partire dalla pergamena originale[13]: la natura di traslatum notariale ci lascia presupporre che l’atto avesse ancora, in qualche modo, un significato efficiente a distanza di cinquant’anni. Provò a rintracciare il retablo dei Carroz Renata Serra, che suggeriva di poterne individuare una parte residuale in quelle porzioni di predella, un tempo depositate nella cappella della Purissima della chiesa dei Conventuali e che, nel 1839, erano state recuperate dallo Spano, facendole confluire nella propria ‘privata pinacoteca’[14]. La Serra attribuiva quelle due tavole al pittore cagliaritano Michele Cavaro corroborando la sua opinione pensando che fosse difficile credere che una commissione così importante non fosse andata alla prestigiosa bottega di Stampace… anche se si incontrano difficoltà a riconoscere gli stiramenti lineari da lui prediletti, in quest’Arcangelo dalle forme così piene e investite da luce solare e nelle Stigmate di Francesco che (ignorando l’interpretazione datane da Pietro [Cavaro]) ripropongono la versione iconografica di Joan Reixach[15]. Le stesse osservazioni della studiosa conducono ad escludere che le due tavole ‘salvate’ dallo Spano siano da legare al lascito di Guglielmo Raimondo: posto che la personalità - oserei dire ‘entità’ - artistica di Michele Cavaro, è opinione di chi scrive, sia ancora da rileggere in modo realistico, il confronto con opere certe di Michele[16], offre alcuni indizi in questo senso. Se realmente Michele fu l’autore delle porzioni di predella salvate dallo Spano, sarebbe opportuno escluderne una datazione alla seconda metà del ‘500, sia per il fatto che nel 1568 il Michele Cavaro ‘certificato’ si dimostri totalmente coinvolto da modelli del manierismo romano[17] e sia perché - come osservava la Serra - quella predella si rifacesse a prototipi iconografici ancora gotici[18].
E’ difficile credere che il retablo realizzato nella seconda metà del ‘500 sia svanito nel nulla… Certo, non è possibile escluderne a priori l’alienazione, forse la vendita da parte dei frati di Stampace… ma si preferisce condurre il lettore, nelle pagine a seguire, sulle tracce di un’ipotesi più suggestiva che, in assenza di documenti dirimenti, si affida ai dati di contesto. Iniziamo dal contesto ‘architettonico’: in mancanza della materiale sopravvivenza dell’edificio, ci affideremo alle descrizioni del San Francesco di Stampace, visitato dallo Spano prima del crollo del campanile, la successiva e insana demolizione e la parziale dispersione degli arredi[19]. In passato ci si è occupati della ‘diaspora’ degli arredi del San Francesco[20], ma non si è ancora sottolineato abbastanza come, nel momento in cui lo Spano ebbe modo di scrivere la sua Guida, la chiesa patisse già da tempo una situazione di degrado - uno stato di semi abbandono, con i dipinti preda di infiltrazioni di umidità, polvere e ragnatele - certamente acuitosi dopo l’avvento delle Leggi ‘eversive’ di incameramento dei beni ecclesiastici (1855), la cacciata dei frati (1861), con una parabola discendente, conclusasi – fortunatamente - con la destinazione di una parte delle opere d’arte dei francescani Conventuali al Regio Museo di Cagliari[21].
Lo Spano descrive i retabli all’interno della chiesa di Stampace in una condizione che potremmo definire di generale ‘manomissione’, inclusa l’eliminazione della maggior parte dei polvaroli. E’ difficile dedurre in quale momento siano stati snaturati, ma è probabile sia da porre nella prima metà dell’800, forse in coincidenza, negli anni ’30, con la scialbatura degli interni affidata al decoratore Antonio Caboni, lo smontaggio dell’altar maggiore tardo-seicentesco e la dispersione di alcuni pezzi antichi. Anche l’unico polvarolo descritto dallo Spano, quel cornicione che attorniava il retablo di San Bernardino, sembrerebbe provenire da un’altra opera smembrata e, già lo Spano, segnalava che i Profeti ivi raffigurati non hanno da veder nulla colla vita di S. Bernardino. Tale alterazione dei manufatti pare inserirsi in un periodo di ‘decadenza’ vissuto dal convento e dai suoi annessi, cui ascrivere anche la costruzione di una serie di casupole date in affitto - che ai tempi dello Spano circondavano parte del perimetro della chiesa - e la concessione dell’area di fronte all’antica facciata, che divenne parete cui addossare la casa Thorel. In riferimento a questi fatti, il Canonico lamentava una ‘profanazione’ del luogo sacro, così come avvenne per alcuni suoi arredi[22].
Fra gli interventi di ‘riposizionamento’ delle tavole gotiche e rinascimentali vi fu anche lo smembramento del cosiddetto Trittico della Consolazione, tradizionalmente attribuito al pittore Michele Cavaro, che lo Spano vide spostato nella cappella dedicata alla Vergine d’Itria in cui la nicchia, praticata al centro della parete di fondo, era affiancata dalle tavole laterali del Trittico (a sinistra San Giovanni Battista e a destra San Michele) e sormontata dalla tavola centrale con la Madonna della Consolazione, di cui si dice essere posta nel finimento[23].Quest’ultima definizione, che oggi potremmo sostituire con il termine coronamento (cast. remate), fa intendere che la giustapposizione delle tavole – agli occhi del Canonico - integrava la nicchia ricreando una sorta di retablo. E’ bene cogliere chiaramente il concetto, dato che quel termine – finimento – è ripetuto dallo Spano a proposito del Retablo della Visitazione di Joan Barceló (in riferimento al Calvario) e a proposito del Retablo dell’Annunciazione di Joan Matés (ancora una volta in riferimento al Calvario). Allo stesso modo di quelle del Trittico, anche le tavole della Pala di San Cristoforo, risultavano già allora smembrate e ricollocate nella cappella denominata, ai tempi dello Spano, del Beato Bonaventura da Potenza[24], di cui egli descriveva il quadro posto al di sopra della nicchia. Dalle sintetiche parole del Canonico è possibile intuire che, attorno alla nicchia, vennero ricomposti cinque spartimenti del polittico, ad esclusione dell’Incoronazione della Vergine, che lo Spano non censisce né in questa cappella né in altro luogo annesso al convento ma che, per altre fonti, sappiamo provenire dal San Francesco di Stampace[25].
Poste queste premesse, non ci è difficile dedurre che anche la Pala avesse, in origine, una differente collocazione. Affidandoci ad una serie di proporzioni - a partire dai rilievi effettuati dall’ingegner Pizzagalli poco prima dei crolli patiti dal San Francesco[26] – possiamo agilmente intendere che la cappella definita ‘del Beato Bonaventura’, pur leggermente più ampia e alta rispetto a quelle della controfacciata e di alcune del versante nord della navata del San Francesco, raggiungesse un’altezza massima di circa 7,5 metri. Considerata la curvatura della volta a cinque chiavi (dettagliata nei summenzionati rilievi) e seguendo il coerente ragionamento attuato da Enrico Pusceddu per quanto concerne la cappella di San Bernardino[27], desumiamo che il massimale consentito in altezza, per un retablo staccato dalla parete di fondo di circa mezzo metro e poggiato su una mensa d’altare alta non meno di un metro, sarebbe di circa 4 metri e 60 centimetri. Definirei la misura ‘ottimistica’, in quanto non tiene conto di eventuali gradini, sui quali, solitamente, è innalzata la mensa di un altare[28]. Ma sommando l’altezza di una delle tavole maggiori (originariamente disposte nella parte bassa del retablo e forse affiancate ad una nicchia centrale[29]) con quella di una delle tavole del secondo registro e aggiungendo, ancora, l’altezza del timpano con il Calvario, otteniamo la misura di circa 4 metri e 40 centimetri: ma quest’altezza dovrà essere integrata con gli spessori dei cornicioni e di altri eventuali elementi ad intaglio ligneo, andati persi, ma certamente esistiti, entro cui risultavano incasellate le porzioni pittoriche di questo grande polittico[30]. Di conseguenza, sarebbe sufficiente accrescere la somma delle superfici dipinte di circa 20 centimetri per superare il massimale consentito all’interno della cappella del Beato Bonaventura. Considerate le proporzioni e il confronto con due ‘retabli’ terminanti a timpano triangolare - quello dell’Assunta di Barumini e l’ancona del Crocifisso della parrocchiale di Quartucciu[31] (ultimo quarto del XVI - primo decennio del XVII sec.) – che proprio dall’opera del convento di Stampace potrebbero aver tratto spunto per la loro conformazione, siamo in grado di proporre una sommaria ricostruzione grafica di quella che potrebbe essere stata la struttura lignea a corredo della cosiddetta Pala di San Cristoforo (Fig. 1), valutandone l’originaria altezza totale fra i 5 e i 6 metri e la larghezza fra i 3,50 e i 4 metri. Tutto ciò significa solo una cosa: che le tavole in oggetto, non solo non furono concepite per la cappella destinata al culto del Beato Bonaventura, ma che l’unico ambiente, all’interno della chiesa, adatto ad ospitare un polittico di tali dimensioni era il presbiterio o capilla mayor.
Fig. 1: Matteo Pérez da Lecce (attr.), Pala di San Cristoforo. Ultimo quarto del XVI sec. Olio su tavola. Cagliari, Pinacoteca Nazionale. Ipotesi di ricostruzione schematica della struttura originaria (a cura dell’autore del testo). Le foto della Pala di San Cristoforo si pubblicano per gentile concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo - Direzione regionale Musei Sardegna.
La vicenda critica della Pala di San Cristoforo
Lo Spano descriveva le tavole in questi termini: al di sopra [della nicchia] vi è un Crocifisso colle Marie e S. Giovanni: indi viene Santa Caterina a sinistra, ed un altro santo alla destra, ambi distinti pel disegno e per le pieghe dei panni. Nei più grandi spartimenti sta a sinistra un S. Sebastiano, e dall’altro lato giganteggia un S. Cristoforo con Cristo Bambino sulle spalle, nel quale per la grandiosità e robustezza vi è impresso tutto il sublime fare di Michelangelo. Riguardo a quest’ultima tavola, annotava: [sullo sfondo,] bella è la figura di quello Eremita, veduto in distanza con bella prospettiva e nuvoloni attorno[32]. Quanto al soggetto che lo Spano qualificava genericamente come un santo senza riconoscerne l’identità, è stato finora qualificato come San Giacomo Maggiore, ma risulta essere, indubitabilmente, San Giacomo Minore, per il bastone da follatore che fu il suo strumento di martirio[33].
Raffaello Delogu, nel 1937, poneva in relazione la Pala di Sant’Orsola (oggi parte del corpus di Francesco Pinna), le tavole dell’ancona di San Cristoforo e quella con l’Incoronazione della Vergine (non riconosciuta come parte integrante del polittico) con l’insegnamento (del tutto ipotetico) dispensato a Cagliari da Michele Cavaro, ormai anziano, e di cui avrebbero beneficiato gli autori di questi dipinti[34]. Trascorse qualche decennio e la Serra espresse il suo scetticismo a mantenere la tesi precisa del Delogu riguardo all’influenza esercitata da Michele Cavaro nella seconda metà del ‘500. E’ una valutazione che chi scrive ritiene valida tutt’oggi. Ella si orientava, viceversa, a credere la Pala di San Cristoforo (ivi inclusa l’Incoronazione della Vergine, della quale in una lunga nota non esitava a considerare l’identità di mano con le altre tavole) frutto di importazione dalla Campania, così come quella di Gerolamo Imparato per il Carmine di Cagliari (1593). Queste nuove presenze, a suo avviso, senz’altro dovettero suscitare nella città un certo scalpore, influenzando i contemporanei pittori locali, come risulta evidente nell’opera del Pinna e del Castagnola[35].Tornava la studiosa (ma assieme a Corrado Maltese) sull’opera in questione un anno dopo, legando il polittico alla pittura manierista del Napoletano, evocando nomi quali Donato Piperno ma così pure suggerimenti più lontani, riferibili a una gamma manieristica molto più vasta, dal Vasari a Enrico Fiammingo[36] [scil. Hendrick van den Broeck, N.d.R.]. Quest’ultimo nome sarà necessario tenerlo presente, in funzione del percorso che si affronta in questa sede.
La bibliografia edita fino a quel momento veniva riportata da Mario Corda nel 1987[37] e nel catalogo, dell’anno successivo[38], della Pinacoteca Nazionale di Cagliari, laddove confluirono le opere pittoriche un tempo parte del Regio Museo. La valutazione della Serra, nel 1990, evolveva nel senso di un ambito manierista campano-siculo: assieme ad una (purtroppo) ancora anonima Adorazione dei Magi proveniente dalla parrocchiale di Quartu Sant’Elena (oggi anch’essa parte della Pinacoteca Nazionale di Cagliari) e alla pala di Cesare Calise realizzata per Villamar, la storica dell’arte apriva la cultura espressa dalle tavole della Pala di San Cristoforo ad un Manierismo non limitato al referente napoletano, bensì esteso da Roma alla Sicilia. Nella scheda di approfondimento curata da Roberto Coroneo – in cui si datavano le tavole all’ultimo quarto del XVI secolo - veniva riportato il giudizio già espresso dalla Serra circa vent’anni prima, definendo il pittore un manierista campano, imbevuto di raffaellismo e irrevocabilmente provinciale, classificato su un livello qualitativamente inferiore ma parallelo alle proposte dell’Imparato e di Francesco Pinna[39]. Una visione dei fatti, quest’ultima, davvero ingenerosa e che non possiamo più condividere. L’anno dopo, la Pala veniva giustamente accostata dalla Scano ai modi dell’anonimo autore dell’Andata al Calvario (libera interpretazione del cosiddetto Spasimo di Sicilia di Raffaello) conservata nella chiesa di Sant’Erasmo a Formia[40], riguardo alla quale è interessante - nella logica del nostro itinerario – non solo confermare l’identità di mano con il nostro polittico ma anche la connessione istituita da Augusto Donò con il pittore Scipione Pulzone, nei termini di affinità culturale[41]. In contemporanea, Pierluigi Leone de Castris proponeva l’assegnazione alla bottega del Criscuolo della citata Adorazione dei Magi proveniente da Quartu Sant’Elena e a Decio Tramontano della Pala di San Cristoforo. Quest’attribuzione restava generalmente accolta dagli studiosi[42].
E’ ancora questo, grosso modo, lo status quaestionis, con poche osservazioni apportate da Aldo Pillittu che riteneva non convincenti, sia l’ambito del Piperno, sia l’ascrizione al catalogo del Tramontano[43]; opinione con cui è bene concordare. Cos’altro si può aggiungere alle osservazioni fin qui addotte? Che ci troviamo dinnanzi ad un’opera concepita, con evidenza, in un ambito culturale profondamente sensibile alla traduzione estetica dei valori teologici della Controriforma e, perciò, inseribile perfettamente in quel Counter-mannerism[44], in cui il sentimento religioso è ottenuto con un nitore scevro da qualsivoglia ambiguità formale. Le espressioni plastiche prevengono e sostengono quanto disposto dal Concilio di Trento, in un’estetica che Federico Zeri definì - in riferimento a Scipione Pulzone - arte senza tempo[45]. Anche le tavole della Pala di San Cristoforo esprimono uno stile ‘depurato’ da contingenze stilistiche, che agli eccessi del manierismo contrappone un ritorno – potremmo dire – alle fonti. Non si dimentica Michelangelo (nelle proporzioni, nell’ampiezza dei volumi) ma il referente ‘genetico’ diventa Raffaello, più attinente ad un ‘classico’ primigenio. Si veda l’ennesimo riutilizzo di incisioni di Marcantonio Raimondi per la formulazione delle figure principali: la Santa Caterina tiene conto sia della Santa Margherita[46]che della Santa Cecilia della serie dei Piccoli Santi. Un discorso quasi analogo si conduca per il San Giacomo Minore, la cui postura ricorda molto bene (ma senza riproduzioni pedisseque) alcuni soggetti della fortunatissima serie di Cristo Risorto e i Dodici Apostoli di Marco Dente (successivamente replicata dal Raimondi)[47]. Nella testa di questo santo è un vago ricordo del Nicodemo della Pala Baglioni, ma raffaelleschi sono anche i dettagli, come lo smerlo del manto, ricorrente in alcuni dei summenzionati Apostoli. E’ opportuno affermare che sia la devozione per santa Caterina d’Alessandria che quella per san Giacomo il Minore concordano benissimo con le vicende dei Carroz di Quirra (e quindi con le sepolture presenti sul presbiterio del San Francesco di Stampace): sono i santi eponimi dei due fratelli ‘germani’ della contessa Violante, deceduti fra il 1464 e il 1467, ma Giacomo era anche il nome del padre di Violante e di uno dei suoi due figli, nati dal secondo matrimonio con Felipe de Castro e morti, a pochi mesi l’uno dall’altro, nel 1503[48].
Fig. 2: Matteo Pérez da Lecce (attr.), Pala di San Cristoforo. Ultimo quarto del XVI sec. Olio su tavola. Cagliari, Pinacoteca Nazionale. Tavola con San Cristoforo che regge il Bambin Gesù.
Tuttavia, i santi propriamente titolari del polittico sono i martiri Cristoforo e Sebastiano, cui sono dedicate le tavole di maggior protagonismo: ciò induce ad ipotizzare una volontà di tipo propiziatorio in relazione alla peste[49] che, durante tutto il secolo, si presentò in più occasioni in Sardegna come in molti territori della penisola iberica. Si ricorda la peste di Saragozza del 1565, nelle cui vicende sanitarie ebbe ruolo un medico originario della Sardegna: Juan Tomas Porcell[50]. Quanto all’isola, si sa che già nel 1575 dei marinai provenienti da Messina vennero rinchiusi in quarantena nella torre di Sant’Elia per timore che potessero essere portatori di contagio; dal 1578 la peste fu ad Alghero e rimane memorabile la diffusione che ebbe nella città ‘catalana’ fra il 1582 e il 1583[51]. Nella Pala, la figura del San Sebastiano è tratta da una diffusissima incisione del Maestro del Dado con influsso del Siciolante di Santa Maria della Pace, ma l’archetipo è l’Apollo della Scuola di Atene. Più complesso rintracciare fonti incisorie per il San Cristoforo (Fig. 2); tuttavia, pare opportuno ricorrere, ancora una volta, ad una stampa del Raimondi, da cui sono ripresi, in modo abbastanza fedele, la testa del santo e il suo braccio destro che regge il bastone fiorito. E’ verosimile che vi si unisca il ‘ricordo’ di un’incisione di Giorgio Ghisi del 1556 (da un’inventio di Luca Penni), con Orione, che reca sulle spalle Diana[52], ispirata da un disegno di Raffaello con Enea e Anchise (Vienna, Albertina) che ebbe larga fortuna. Contraddistingue la figura il consueto mantello rosso (simbolo della Passione di Cristo) che si ripete, come una sorta di sciarpa o nastro gonfiato dal vento, nella figura del Gesù Bambino.
Il Calvario del timpano e l’Incoronazione della Vergine sono affrontati secondo modelli più tardi, esprimendo in modo ancor più incisivo – pur in termini di semplificazione formale - scelte legate alla pittura controriformistica romana, ad artisti che hanno animato importanti luoghi di condivisione come la Compagnia di San Luca: Marcello Venusti, Scipione Pulzone, Girolamo Muziano – tutti Consoli dell’Arte fra il 1576 e il 1582 - cui dovranno aggiungersi, necessariamente, il gesuita marchigiano Giuseppe Valeriano[53], il laziale Girolamo Siciolante, i toscani Marco Pino e Giovan Battista Naldini e Giovanni Filippo Criscuolo, nativo di Gaeta come il Pulzone. Tanti nomi ma che richiamano un preciso clima culturale espresso, nella Pala, da dettagli come il panneggio e la manica ripiegata della Maddalena (come in diverse Madonne del Pulzone); la sagoma del Cristo, che sembra tener conto di un’incisione raffigurante un affollato Calvario stampata nel 1541 dallo spagnolo Antonio Salamanca[54]; la ‘statuaria’ presenza della Santa Caterina (affine, in qualche modo, alle figure femminili del Polittico di Torchiara di Marco Pino); gli sfondi di paesaggio che, attraverso le nubi disposte quasi in filari progressivamente diradati, suggeriscono la scansione prospettica, esaltando i monumentali protagonisti - come in Criscuolo - e rievocando analoghe e più datate formule di Andrea da Salerno.
Considerati i pochi termini di confronto pittorico presenti a Cagliari - i due noti polittici per il Carmine, quello dell’Imparato (1594) e quello del Pinna – la verosimile anteriorità della Pala di San Cristoforo aumenta la sua importanza in relazione al contesto locale. Essa è caratterizzata da un’enfasi paesaggistica decisamente interessante, con episodi singolari come le presenze architettoniche ‘classiciste’ ai lati del Calvario, in cui parrebbe di cogliere il ricordo di una ‘veduta’ ai piedi dell’Incoronazione della Vergine di Andrea Marelli, incisore allievo del già citato Giorgio Ghisi, e toscano come Marco Pino[55], perciò organica al discorso testé proposto. La stessa incisione sembrerebbe offrire spunti per la figura di Dio Padre dell’analogo soggetto della nostra Pala, mentre il Cristo e la Vergine hanno maggiore affinità con altre due stampe di Domenico Tibaldi e Marten de Vos. Infine, nel contorno di figure angeliche è agevole individuare la continua citazione, quantomeno iconografica, di invenzioni di Marco Pino.
Il contesto storico cagliaritano della seconda metà del XVI secolo
Abbiamo ritrovato il polittico voluto per l’altar maggiore del San Francesco di Stampace da Guglielmo Raimondo Carroz? In base ai caratteri stilistici, è necessario presupporre la realizzazione dell’opera a distanza di almeno 20-25 anni dal dispositivo del conte di Quirra, quindi in data successiva alla sua morte. Ciò è possibile, verosimile o addirittura probabile? Andiamo con ordine. Dopo aver analizzato il contesto ‘architettonico’, alcuni riferimenti a quello storico ci potranno indirizzare in questo senso. Fra le vicende più importanti che coinvolsero il Regno di Sardegna nella seconda metà del XVI secolo è opportuno ricordare il generale riassetto istituzionale voluto da Filippo II, con un progressivo accentramento del potere - come si iniziò a fare ai tempi di Ferdinando il Cattolico – ma con una permanente dialettica delle parti (monarchia vs istituzioni/particolarismi regnicoli e municipali) che accettano di buon grado l’innesto di regole e di valori collettivi di provenienza castigliana ma restano vincolate agli assetti tradizionali consolidati già in epoca medievale. In molti casi l’ereditarietà degli uffici avrebbe assicurato la fedeltà alla corona[56]. Nonostante questo nuovo ordine di cose (o forse come conseguenza del medesimo) - come dimostrato da Francesco Manconi - il Consiglio Supremo d’Aragona esprime ancora una palese anomalia organizzativa: non vi partecipano regentes del Regno di Sardegna (il primo sarà Francesco Vico, ma si dovrà attendere il 1627). La Sardegna, come Maiorca, ha un minore peso politico nell’ambito della corona d’Aragona, sottolineato dalla mancanza di una propria Generalitat (o Diputación, come veniva chiamata a Saragozza), che in qualche modo ne garantisca un’individualità istituzionale più netta[57].
La condizione di regno ‘di second’ordine’ inizierà a ridursi solo alla fine del ‘500: sempre il Manconi ha ipotizzato che i ceti privilegiati sardi, nei secoli passati, non avessero ancora maturato quella concezione ‘pattista’ che stava già alla base delle altre entità statuali afferenti alla corona d’Aragona; ma anche questo motivo non appare sufficiente. Fra i pochi nobili ‘sardi’ che fecero strada alla corte di Carlo V vi furono Salvador Aymerich e Azor Zapata, ciò anche come conseguenza del limitatissimo numero di letrados ‘naturali’ del regno. A metà ‘500 gli intellettuali degni di nota sono ancora pochissimi: meritano di essere menzionati Alessio Fontana, Jeronimo Olives e Sigismondo Arquer. Apporta nuovi esiti, in questo campo, la riforma tridentina, che cerca di porre rimedio ad un’arretratezza ripetutamente denunciata dall’Arquer così come dall’arcivescovo di Cagliari Parragues de Castillejo[58]. Emerge l’importanza di inviare nell’isola vescovi che siano anche colti e atti alla gestione del potere temporale[59]. Alcuni prelati destinati alla Sardegna sono reduci dal Concilio di Trento[60]: è utile ribadire come il ‘patronato regio’ abbia sì riflessi sulla cura animarum ma soprattutto sulla divulgazione dei dettati conciliari e, con essi, di una più diffusa scolarizzazione. Sempre sul fronte ecclesiastico, nel 1563 viene ripristinata l’attività dell’Inquisizione, con il trasferimento del Tribunale nel castello di Sassari. Frattanto, nel novembre 1557, i primi padri della Compagnia di Gesù giungono nell’isola per avviare la fondazione dei collegi di Cagliari e di Sassari: del 1565 è l’apertura di quello cagliaritano[61]. Contestualmente all’arrivo dei Gesuiti, si fa concreta la possibilità di creare anche in Sardegna una o più università (la prima richiesta risale al 1543, nel corso delle attività del parlamento Folch de Cardona[62]) e, a Cagliari, nel 1566, viene fondata la prima tipografia sarda, dal futuro vescovo di Bosa Nicolò Canyelles.
L’altro grande ‘tema’ caratteristico della seconda metà del XVI secolo è l’intensificarsi dei timori per un attacco turco, in analogia a quanto già accaduto in altri ‘avamposti’ cristiani del Mediterraneo; fra le tante circostanze memorabili, ebbe grande risonanza l’assedio di Malta nel 1565, con manifestazioni di rilievo anche in ambito artistico (lo si vedrà in seguito di trattazione) e letterario[63]. E’ per questo motivo che si imprime un’accelerazione al progetto di fortificazione delle piazzeforti sarde. Dopo la celebre Battaglia di Lepanto (1571) e la partenza da Cagliari di Rocco Capellino (1572), gli autori e attuatori dei progetti sono gli architetti militari, originari della Svizzera, Giovan Jacopo Paleari (detto el Fratín) e suo fratello Giorgio[64].
Quanto ad altri dati più direttamente connessi con l’universo artistico, si dovrà ancora una volta fare riferimento all’attività editoriale del Canyelles, forte di un’intensa relazione con gli ambienti romani (a Roma conseguì la laurea e fu ‘prelato domestico’ di Giulio III): tralasciando gli aspetti più propriamente tipografici, è utile ricordare che, negli anni ’70, inizia ad essere attestato al suo servizio l’incisore Hieronimus Gayetta[65] (verosimilmente originario di Gaeta), autore degli 11 bulini che illustrano la Decada de la Passion de Nuestro Redemptor Iesu Cristo, stampata a Cagliari nel 1576, scritta dal viceré di Sardegna Juan de Coloma, barone d’Elda e nativo di Saragozza. Inoltre, indizio di una certa familiarità con l’ambiente incisorio romano, il possesso, da parte del medesimo Canyelles, di una serie di 11 stampe di traduzione del Giudizio Universale di Michelangelo[66]. Poste queste premesse, il decennio che trascorre a partire dalla metà degli anni ’70 risulta fondamentale per poter entrare appieno nel merito della Pala di San Cristoforo: si chiuderà con la morte di Michele Cavaro (1584) e l’arrivo dell’algherese Francesco Pinna, documentato a Cagliari a partire dal 1586. Proprio in questi dieci anni si pongono una serie di vicende apparentemente più attinenti alla storia dell’architettura, come la posa della prima pietra del Sant’Agostino Nuovo su disegno di Giorgio Paleari (13 agosto 1577)[67] e l’arrivo in Sardegna dell’architetto gesuita Giovanni Maria Bernardoni, autore di diversi progetti per case e chiese gesuitiche a Cagliari e nel resto dell’isola[68]. E’ in queste dinamiche che si dovrà cercare una personalità artistica coerente, sia da un punto di vista stilistico, sia in relazione con i dati di cronaca appena esposti.
Come già detto, una certa proiezione cronologica della commissione, rispetto alla data del 1549, è insita nello stesso sistema di finanziamento adottato, che prevedeva una rendita annuale di 25 ducati d’oro per un numero imprecisato di anni. Si può dedurre che ne sarebbero serviti più di venti per accumulare una cifra congrua, in base alle tariffe documentate sul contemporaneo mercato cagliaritano (certamente modeste, rispetto ad altri contesti extraisolani)[69]. E’ altresì possibile individuare altre cause, funzionali alla presupposta dilazione della commissione e, quindi, dell’identificazione dell’opera con la Pala di San Cristoforo. Una è strettamente legata alle vicende del convento di Stampace, che rischiò di essere demolito per esigenze legate alle fortificazioni militari della città. Fra le ipotesi ripetutamente ventilate in fase di progettazione dei baluardi vi è quella della demolizione dei tre conventi di Sant’Agostino, di Santa Maria de Jesus e di San Francesco[70]. Tuttavia, si opta per la soluzione meno ‘impattante’, sacrificando solo il primo, con contestuale ricostruzione del cenobio intra moenia e dell’annessa chiesa in eleganti forme manieriste, che innovano l’antiquato panorama architettonico isolano, ancora legato alla rassicurante e ‘tradizionale’ estetica tardogotica. Altro motivo di difficoltà per la comunità stampacina è da connettere con il passaggio dei francescani Osservanti sardi ai superiori spagnoli nel 1581: non si riesce ad ottenere altrettanto per i Conventuali, che rimangono fedeli all’ubbidienza italiana, resistendo oltremodo a ripetuti tentativi di fusione con gli Osservanti (messi in atto a partire dal XV secolo) e fino a giungere al caso eclatante del ministro Provinciale Bonaventura da Sassari che, nel 1570, viene deposto e sententiatus ad triremes[71]. Mi pare che il ventaglio di possibili, verosimili e addirittura probabili motivi di rinvio dell’acquisto di un nuovo retablo per l’altar maggiore del San Francesco siano davvero tanti, non ultimo la provata assenza dell’originario committente dalla Sardegna, così come avverrà per suo figlio, almeno fino al 1574, quando il conte di Quirra continua ad essere sostituito da un suo procuratore negli atti parlamentari[72].
Luis Carroz, un misconosciuto e stravagante intellettuale
Alla morte di Guglielmo Raimondo Carroz (Centelles), le proprietà sarde passarono nelle mani di suo figlio Luis, che divenne, così, VII conte di Quirra. Da un documento del 1570 sappiamo che quando era ancora menor i suoi beni (o parte d’essi) erano stati affidati al nobile Pedro Çanoguera[73]. Sappiamo, inoltre, che nel 1572 sposò Francesca de Alagón[74] e che, qualche tempo dopo il loro matrimonio, la coppia si trasferì in Sardegna. Con Luis continua ad avere un certo protagonismo, sugli scenari sardi, la città di Saragozza. Francesca era infatti figlia di Artal de Alagón detto ‘il Santo’, III conte di Sástago, viceré e Capitano Generale di Aragona dal 1574 al 1589. Grande protagonista politico di quegli anni, costruì nel Coso di Saragozza (strada che ricalca, ancora oggi, il perimetro dell’antico castrum romano), fra il 1570 e il 1574, il sontuoso palazzo in cui venne ospitato anche il re Filippo II nel 1585. Artal - discendente dell’omonimo signore di Sástago, padre dell’ultimo marchese di Oristano – al termine della sua vita entrò nel Terz’Ordine francescano e si ricorda per importanti iniziative benefiche nella capitale e in altri luoghi del regno d’Aragona[75].
Questi sono dati di ‘contorno’ ma che ci informano sul livello aristocratico e culturale delle frequentazioni del conte di Quirra e di come la triangolazione fra i Carroz, la Compagnia di Gesù e i francescani Conventuali costituisca, per così dire, una costante familiare. Luis morì il 21 ottobre 1586[76] e il 28 dello stesso mese morì sua moglie[77].
Da documentazione recentemente venuta alla luce sappiamo della donazione, fatta dal conte di Quirra, di un corral (cortile) a beneficio dell’erigenda casa gesuitica di Cagliari, attigua e comprendente la chiesa di Santa Croce e confinante con le proprietà immobiliari dei Carroz, all’interno del Castello di Cagliari, di cui oggi sopravvive il cosiddetto Palazzo Nieddu[78]. Sappiamo anche del grande impegno messo in atto dal viceré de Madrigal, dai giudici della Reale Udienza e dai consiglieri civici che misero a disposizione della Compagnia 500 lire di rendita annua. Il medesimo viceré, assieme all’inquisitore, i consiglieri e altri notabili della città raccolsero quasi 2000 lire cagliaresi per l’acquisto del primo nucleo di alloggi della comunità gesuitica, inizialmente costituita da 10 religiosi condotti in Sardegna dal rettore del già attivo collegio di Sassari Baldassarre Piñas. Quest’ultimo, dopo aver professato solennemente a Roma nel luglio 1564, si trasferì a Saragozza nel 1570 (da dove si era allontanato quindici anni prima), con l’incarico di maestro dei novizi e, dopo la morte di Francisco de Borja, si imbarcò per il Perù, giungendovi nel 1575[79].
Forse a causa dell’impedimento, posto dall’arcivescovo Parragues, di seppellire i benefattori nella chiesa del collegio[80], il viceré Alvaro de Madrigal, deceduto il 6 settembre 1569, venne sepolto all’interno del San Francesco di Stampace, nella cappella che, nel XIX secolo, risultava intitolata a San Carlo Borromeo, sita in prossimità del presbiterio, dalla parte dell’epistola e quindi a breve distanza dalle sepolture dei Carroz. Frattanto, una serie di architetti della Compagnia di Gesù venivano inviati in Sardegna dalla casa generalizia di Roma per la progettazione di spazi residenziali e chiese: Gian Domenico Verdina, Gavino Crisostomo Cayna e il già citato Giovanni Maria Bernardoni. Sono ulteriori spunti di contatto con Roma che si innestano nel nostro percorso di indagine; a quelli di ordine stilistico già evidenziati in relazione alle tavole della Pala di San Cristoforo, a quelli d’ambito culturale segnalati a proposito di Nicolò Canyelles e delle fondazioni gesuitiche si unisca la nota relazione di Francesco Pinna con il cardinale Marcantonio Colonna che, allo scadere del secolo, a contraccambio de’ travagli prestati in qualità di pittore venne ricompensato con un reliquiario dei Santi Martiri Innocenti[81].
Non resta che citare una serie di questioni attinenti l’universo letterario e che riguardano proprio don Luis Carroz, anche in prima persona, gettando qualche luce sulla sua misconosciuta personalità: al conte di Quirra venne dedicata la novella Los diez Libros de Fortuna de Amor del militare algherese Antonio de Lofrasso (1573), il cui decimo libro è espressamente rivolto alla contessa Francisca[82]; ma di recente è emerso che lo stesso Luis fu autore di versi nonché appassionato intellettuale interessato all’alchimia, tema particolarmente apprezzato ai tempi di Filippo II, anche dallo stesso monarca: nel 1552 Luis scrisse, a Valencia, l’Epistola super quinta essentia e, verosimilmente in tempi successivi, compose le Coplas de la Piedra Philosophal, sempre a tematica alchemica[83].
L’ipotesi di una commissione per Matteo Pérez da Lecce
Andato perso nella quasi sua interezza l’archivio della comunità dei Conventuali di Stampace e in assenza di atti di commissione da poter collegare con la Pala di San Cristoforo, si è reso necessario anteporre, a quanto segue, la complessa trama di contatti che, nella Sardegna della seconda metà del ‘500, evidenziano una certa crescita culturale, inedite correlazioni fra luoghi, persone e contesti disparati e un ruolo di primo piano da parte dei conti di Quirra. In conseguenza di ciò, evidenze stilistiche e legami con le vicende storiche che si è cercato di enucleare, conducono a valutare l’ipotesi che autore della Pala di San Cristoforo sia stato il pugliese Matteo Pérez da Lecce. Sia per esigenze legate alla presente indagine che per motivi intrinseci alla complessa ‘fisionomia artistica’ di questo pittore, se ne proporrà, di seguito, una sintesi biografica che tenga conto delle diverse traditiones critiche, legate alle quattro principali tappe del suo peregrinare: Roma, Malta, Siviglia e, infine, Lima (Perù), dove visse fino alla fine dei suoi giorni. Nacque probabilmente ad Alezio (Lecce), fra il 1545 e il 1550[84], da Antonio Pérez e Madama Lucente[85]. Ignoriamo in quale contesto Matteo sia stato iniziato alla pittura[86]. Lo troviamo alla fine degli anni ’60 inserito nel gruppo di pittori e stuccatori attivi a Villa d’Este a Tivoli[87]: che abbia partecipato (e non in maniera marginale) a questo cantiere gestito da diverse compagnie di artisti, fra cui le ‘imprese’ guidate da Livio Agresti e Girolamo Muziano ha, ai nostri occhi, grande interesse. Un’incisione studiata da Aldo Pillittu, stampata nel 1568 e raffigurante il Ritratto del devotissimo Crucifisso de Oristan (Londra, British Museum) viene, infatti, legata ad un’inventio di Livio Agresti. Fra l’altro, presso l’ufficio del Presidente della Corte d’Appello di Cagliari esiste un dipinto che risulta fortemente legato alla stessa incisione (ma è difficile stabilire quale sia l’ordine di derivazione). A loro volta, sia la stampa che la tavola dipinta, hanno forti tangenze con l’iconografia adottata dal Calvario della Pala di San Cristoforo che - come già detto - segue più fedelmente la postura del Cristo di un altro Calvario, stampato da Antonio Salamanca. E’ lecito ipotizzare che anche l’incisione con il Santo Cristo ‘di Nicodemo’[88] possa configurarsi come una commissione da parte dei Conventuali, nella cui chiesa di Oristano si conserva, tuttora, il venerato Crocifisso[89]. Che in quegli anni i francescani Conventuali sardi avessero intense relazioni con la Città Eterna è attestato dal fatto che il già citato Bonaventura da Sassari, proprio a Roma – notare: in data 4 giugno 1568 - venisse confermato nell’incarico di Provinciale[90].
Di quei tempi è un ritratto abbozzato da Jacopo Palma il Giovane, con una didascalia autografa che recita Mateo de Leze pintor / in Roma nel 1568 / qual morse poi nel Perù / compagno di Giacomo Palma car[issi]mo[91]. Nel 1573 egli risulta membro della Compagnia di San Luca[92], che al tempo aveva funzioni affini a quelle di un gremio professionale, almeno fino alla ‘rifondazione’ da parte di Federico Zuccari (1593) che ne valorizzò il carattere intellettuale e didattico.
Risalirebbe al 1574 l’affresco con la Disputa sul corpo di Mosè all’interno della Cappella Sistina (realizzato di fronte al celebre Giudizio di Michelangelo e in sostituzione di un analogo soggetto di Luca Signorelli)[93]. La Disputa, alla quale Matteo da Lecce lavorò in collaborazione con Guidonio Guelfi del Borgo, fa da pendant alla Resurrezione di Cristo, dipinta da Hendrik van den Broeck: proprio il pittore fiammingo evocato da Corrado Maltese e Renata Serra a proposito della Pala di San Cristoforo[94]. Per la figura dell’Arcangelo Michele (fulcro della raffigurazione e pregiudizialmente assegnata al summenzionato Guidonio) è agevole identificarne il prototipo nella grande tavola di Marco Pino dipinta per la chiesa di Sant’Angelo a Nilo a Napoli[95]. Una certa prossimità con l’affresco della Sistina mostra l’Arcangelo dipinto da Francesco Pinna nella Pala di Sant’Alberto (Cagliari, chiesa del Carmine), che abbiamo già avuto modo di citare, ma ignoriamo attraverso quali canali, il pittore algherese possa aver attinto alla fonte iconografica.
Fra il 1575 e il 1576 il Pérez realizzò tre sezioni del fregio nell’Oratorio del Gonfalone. Dei suoi interventi rimarrebbero il grande Re Salomone e qualche altra figura della parete sinistra. Uno studio preliminare (per un angelo colto di tergo, che vola fra un profeta e una sibilla) è stato riconosciuto da Gere in un foglio conservato al British Museum[96]. Per lo stesso ambiente Matteo dipinse anche un Ecce Homo, che egli stesso distrusse per cause non del tutto chiare e che, successivamente, venne rifatto da Cesare Nebbia. Il singolare episodio avrebbe determinato il suo trasferimento a Malta[97], dove lavorò al servizio del Gran Maestro Jean Levesque de la Cassière. Nel Salone degli Ambasciatori del Palazzo del Gran Maestro dei Cavalieri dell’Ordine di San Giovanni il pittore pugliese affrescò alcune fasi militari del Grande Assedio subìto dall’isola nel 1565 da parte delle flotta turca (che abbiamo già avuto modo di ricordare). I dipinti sono strutturati in 12 scene alternate a figure allegoriche di Virtù monumentali[98]. Vi è grande attenzione al dettaglio nella raffigurazione delle azioni navali, così come nell’abbigliamento dei militari schierati. Altrettanta cura è prestata ad una vera e propria descrizione ‘topografica’ dell’isola, con una minuzia da cartografo che consente di ipotizzare una stretta correlazione con gli ingegneri militari che si occuparono della progettazione della città-fortezza de La Valletta, in primis Francesco Laparelli e Girolamo Cassar[99], di cui è documentata la collaborazione con Jacopo Paleari[100], autore assieme a suo fratello Giorgio – come si è detto - delle fortificazioni di Cagliari. Per la cattedrale de La Valletta, il Pérez dipinse il Battesimo di Cristo, un tempo al centro dell’altar maggiore, che consente un utile confronto con l’Incoronazione di Cagliari (Fig. 3)[101]: per la disposizione delle figure in relazione allo spazio loro assegnato; per la particolare grazia delle posture che fa emergere similitudini anatomiche di significativa evidenza; infine, per la selezione di toni freddi e analoghe accensioni cromatiche.
Fig. 3: Confronto fra l’Incoronazione della Vergine della Pala di San Cristoforo e il Battesimo di Cristo della cattedrale di Malta. Olio su tela. La Valletta, Museo della Co-cattedrale di San Giovanni.
Nel 1579 il vescovo catalano Tommaso Gargallo – eletto alla cattedra maltese un anno prima - gli commissionò la grande tela con il Naufragio di San Paolo a Malta (La Valletta, St. Paul’s Shipwreck Church) comprendente il ritratto del committente alla base della complessa composizione[102]. Risalgono verosimilmente agli anni maltesi anche due ritratti recentemente transitati sul mercato antiquario: uno del Gran Maestro Jean de la Valette (in carica al tempo dell’assedio del 1565) e l’altro del Sultano Bayezid I che, nel 1396, impedì alle forze crociate la riconquista di Gerusalemme ma, successivamente, venne sconfitto da Tamerlano[103].
Ottenuto un salvacondotto dal Gran Maestro de la Cassière (28 giugno 1581) il Pérez tornò a Roma, probabilmente facendo tappa in Sicilia, come farebbe credere l’incisione con L’Ultima comunione di Santa Lucia, tratta da un dipinto che realizzò per Siracusa[104]. Il 9 luglio è nominato nei verbali d’assemblea della Congregazione dei Virtuosi al Pantheon[105]. Il 31 agosto la Compagnia del Gonfalone annotava nel Libro dei Decreti la sua richiesta di riconciliazione… probabilmente senza esito, giacché i lavori di decorazione risultavano già ultimati[106]; inoltre, l’assenza dagli ambienti artistici romani, lo aveva tenuto al di fuori dai continui aggiornamenti richiesti dalla committenza più colta. Dal settembre 1581 il Pérez compare nuovamente nei ruoli della Compagnia di San Luca[107]: l’anno successivo, sia questa che la Congregazione dei Virtuosi, risultano ‘rette’ da Scipione Pulzone, alla cui elezione partecipò anche il nostro pittore. L’influenza esercitata su di lui dal ‘Gaetano’ – Pulzone era chiamato così in quanto originario di Gaeta - ne condizionò fortemente la maturazione stilistica, al seguito dell’estetica controriformistica e dell’azione della Compagnia di Gesù[108].
Del secondo soggiorno a Roma[109], ci resta un’intensa attività di riproduzione calcografica: tradusse all’acquaforte, in 15 rami, gli affreschi realizzati a Malta nel Salone degli Ambasciatori, pubblicandoli in una raccolta intitolata I veri ritratti della guerra, & dell’assedio, & assalti dati alla isola di Malta dall’armata turchesca l’anno 1565[110]. E’ sempre del 1582 l’incisione di traduzione della tela con il Battesimo di Cristo, dipinto per la cattedrale de La Valletta e, fra il 1582 e il 1583, datano anche quelle con l’Altare di San Giovanni Battista (2 lastre), con privilegio di Gregorio XIII e la già citata Ultima comunione di S. Lucia[111]. In totale si conoscono 26 lastre realizzate o attribuite al Pérez, di cui tre incise dal fiammingo Pierre Perret (1555-1639): la grandiosa Conversione di San Paolo; un Martirio di Santa Caterina e il già citato Battesimo di Cristo. 23 sono le lastre direttamente incise dal Pérez e vi si evince, chiaramente, la sintesi delle due tendenze entro cui oscilla: il vigoroso michelangiolismo assunto attraverso l’esperienza di Taddeo Zuccari e l’ascetismo della Controriforma romana, per la quale le stampe divennero un insostituibile medium catechetico[112].
Fig. 4: Matteo Pérez da Lecce, Affresco con San Cristoforo e monumento sepolcrale di Cristoforo Colombo. Siviglia, cattedrale.
Lo spostamento a Siviglia avvenne fra il marzo e l’ottobre del 1583. Questa nuova tappa la si può seguire tramite Francisco Pacheco che riportava informazioni di prima mano, tramite un suo zio, canonico della cattedrale[113]: in ottobre, al Pérez viene pagato un acconto di 30 ducati per l’affresco raffigurante un gigantesco San Cristoforo, situato in prossimità di un ingresso laterale e che oggi fa da sfondo all’ottocentesco sepolcro di Cristoforo Colombo (Fig. 4). Venne concluso nel 1584, come testimoniato dall’epigrafe Matthaeus Perez de Alecio italus faciebat, anno d[omi]ni MDLXXXIV[114]. Del 19 ottobre 1584 è l’incarico della grande tela con la Battaglia di Clavijo per la cappella patrocinata, nella chiesa di Santiago, dal nobile sivigliano Argote de Molina, che lo incaricava anche, per un quinquennio, quale pittore al suo servizio, per una cifra di 600 ducati annui[115].
Non sappiamo quale fu il tramite esatto per la sua partenza verso il Perù. Una traccia di sicuro significato è il contatto con la Compagnia di Gesù e l’adesione all’estetica del contromanierismo che avrebbe poi diffuso nel Nuovo Mondo, ricongiungendosi con il pittore gesuita Bernardo Bitti (che certamente incontrò a Lima nel 1592)[116]. Entrambi – ai quali si aggiunse il giovane napoletano Angelino Medoro - con il loro stile ormai ‘riformato’ fondarono una vera e propria ‘scuola pittorica’ sudamericana, raggiungendo luoghi anche distanti fra loro. Quanto a Matteo Pérez, il 6 novembre 1587, ancora a Siviglia, si impegnava a pagare 260 ducati al librero Melchor Riquelme, una volta giunto a Lima, dove portò con sé una ricca collezione di incisioni, fra cui l’opera completa di Dürer e altri autori, assieme con dei disegni, che divennero motivo di rinomata condivisione nei circoli aristocratici limeñi[117]. Si tramanda una sua asserzione rimasta celebre: sarebbe rientrato dal Nuovo Mondo solo quando pudiera darse el lujo de mantener caballos y sirvientes. Un uomo ambizioso dunque[118], che nel 1590 risulta essere pintor de cámara del potente viceré del Perù Garcia Hurtado de Mendoza (1589-1596) di cui realizzò il ritratto, identificabile in quello oggi parte delle collezioni del Museo Nacional de Antropología e Historia di Lima[119]: in un ambiente meno ricco di stimoli, questo ritratto - come quelli dei fondatori del convento de la Concepción, Inés Muñoz e suo marito Antonio de Rivera[120] - testimonia di una sorta di ‘arcaicizzazione’ e adattamento ad un gusto decisamente più provinciale.
In Perù Matteo si sposò, nel 1590, con Marìa de la Cadena y Fuentes[121] e la sua attività è documentata a partire da questa data e fino al 1606[122], fungendo anche da formatore per numerosi apprendisti. Sappiamo che inviò opere anche ad Arequipa e Huánuco: in quest’ultimo centro si data al 1594 la Santa Faz su lastra di rame[123] inserita in un retablo dove si trova anche la Vera efigie di Sant’Agostino, riproduzione di una venerata icona romana[124]. Mentre quest’ultimo soggetto – forse in quanto ‘copia’ di opera più antica – risulta distante dalle caratteristiche più consuete del pittore, nella sua ‘Veronica’ (nonostante le cattive condizioni di conservazione) riconosciamo facilmente lo stile maturo del Pérez, anche in comparazione con un dettaglio della Santa Caterina della Pala cagliaritana (Fig. 5): in particolare, è analoga la composizione anatomica dell’occhio e delle arcate sopraccigliari e uguale il modo di conferire concavità o convessità alle forme del volto. Le stesse caratteristiche sono leggibili in alcune porzioni non manomesse della decorazione della cappella Villegas a Lima[125].
Fig. 5: Confronto fra la Santa Faz (olio su lamina di rame. Huánuco, chiesa di Nostra Signora della Mercede) e il dettaglio del volto della Santa Caterina della Pala di San Cristoforo (Cagliari, Pinacoteca Nazionale).
Pare che il Pérez non abbia più praticato l’arte dell’incisione, poiché la stampa calcografica apparve per la prima volta in Perù nel 1612: l’inutilizzo delle lastre fece sì che venissero ‘sacrificate’ dal pittore, in qualche caso, per dipingervi sul retro, come avvenne per la Madonna del Latte, realizzata su una sua incisione di traduzione della Sacra Famiglia sotto la quercia di Raffaello[126]. Il dipinto, studiato dal prof. Stastny, è prevalentemente ispirato alla Madonna della Rosa di Pulzone[127], a sua volta dipendente da diverse suggestioni raffaellesche e incisioni di Marco Dente e Marcantonio Raimondi. Il confronto stilistico con la Vergine dell’Incoronazione di Cagliari conforta definitivamente l’attribuzione della Pala di San Cristoforo che si è voluta proporre in queste pagine (Fig. 6): ci si concentri su ogni dettaglio anatomico del volto della Vergine (in modo particolare le palpebre globose e la maniera di raffigurare le sopracciglia, con un unico e sottile tratto curvo, sfumato e assottigliato alle estremità). Altrettanto dicasi per il Bambino della lastra peruviana che ricorda, in qualche modo, la formula anatomica della Santa Caterina già presa in considerazione. Si prosegua in questa sorta di decodifica ‘morelliana’, cogliendo la reiterata conformazione delle dita allungate della Vergine, più accurate nell’opera realizzata nel Nuovo Mondo, ma assolutamente identiche nel disegno, inclusa l’innaturale concavità attribuita alle unghie dei pollici.
Fig. 6: Confronto fra la Vergine Maria dell’Incoronazione della Pala di San Cristoforo e la Virgen de Belén (o Madonna del Latte). Olio su lamina di rame. 48,3 x 39,2 cm. Museo d’Arte di Lima (Collezione Donazione Petrus Fernandini in memoria di Héctor Velarde Bergmann).
In conclusione
Si è posto il lettore al cospetto di una trama di relazioni che qualifichino l’assegnazione al catalogo di Matteo Pérez da Lecce ben al di là di una semplice attribuzione per via stilistica. Ovviamente si tratta di un’ipotesi aperta a future e ulteriori verifiche. Sembrerebbe logico inserire la Pala di San Cristoforo nel periodo che intercorre fra il trasferimento del pittore a Malta e il suo definitivo allontanamento da Roma (1576-1583). Un dato da non sottovalutare sarà la familiarità dei Centelles con i Giovanniti: conosciamo ben due personaggi che superarono la prueba per l’accesso all’Ordine. Si è già detto di fra Ángel de Centelles che divenne cavaliere di Malta nel 1535, ma sappiamo anche di un Serafín, il cui ingresso risale al 1612[128]. La comunicazione fra Sardegna e Malta era potenzialmente assicurata dagli ingegneri militari alle prese con la fortificazione delle due isole. Ma il contatto con il pittore potrebbe legarsi anche a dinamiche che riguardano in modo diretto Roma: il radicamento della Compagnia di Gesù a Cagliari, l’attività tipografica del Canyelles e altre relazioni interne alla famiglia dei Conventuali sardi.
Si è cercato di esporre i risultati di un’indagine intricata ma che restituisce - almeno in sintesi - un tessuto di vicende, scelte, vicissitudini e ipotesi inerenti ai conti di Quirra e agli scenari in cui essi vissero, durante il XVI secolo. La Sardegna si conferma luogo strategico e necessario crocevia di flussi umani, i più disparati; protagonista di episodi artistici che rispecchiano l’ambiguità della sua natura isolana: distante dai più grandi centri di elaborazione e scambio, eppure sempre capace di intercettare ogni tendenza, anche quelle culturalmente più raffinate.
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Didascalie:
[1] Doctorando en Historia del Arte, Universitat de Lleida. pesho@tiscali.it
[2] I conti di Quirra costituirono uno dei due rami della famiglia feudale dei Carroz ‘sardi’, imparentata sia con la dinastia giudicale degli Arborea che con i Cubello, marchesi di Oristano. Le fortunate vicende politiche e militari - susseguenti alla progressiva occupazione del regno di Sardegna da parte delle truppe del re della corona d’Aragona - fecero dei Carroz i principali protagonisti dell’ultima porzione del Medioevo sardo. Violante, figlia di Giacomo Carroz e di Violante Sánchez de Centelles, dovette subire, durante la sua vita, diverse vicissitudini legate alla morte di suo padre, dei suoi due mariti, dei suoi figli e a causa di una vicenda che la vide coinvolta (probabilmente suo malgrado) nel misterioso omicidio di un sacerdote. Perciò ebbe a che fare con una lunga serie di pleitos legali, soprattutto con i Carroz d’Arborea, con i quali risultava imparentata anche a motivo del suo primo matrimonio. Non avendo più discendenza diretta, nel suo testamento del 1504, designava quale erede universale Guglielmo Raimondo Centelles (figlio di una sua sorellastra), con il vincolo di dover assumere l’apellido Carroz (o Carròs, versione generalmente accolta negli studi catalani) e lo scudo araldico dei conti di Quirra. I più importanti contributi su Violante Carroz si devono a Maria Mercé Costa (1923-2020), studiosa di grande valore che diresse l’Archivio della Corona d’Aragona fra il 1983 e il 1988, scomparsa lo scorso 10 aprile: il presente studio è dedicato alla sua memoria come a quella di p. Umberto Zucca (1937-2015), compianto direttore di Biblioteca Francescana Sarda. Sulle vicende storiche menzionate: COSTA, M. M. Violant Carroç una comtessa dissortada. Barcelona: R. Dalmau, 1973; COSTA, M. M. Les sepultures de la familia Carròs en el monestir de Sant Francesc de Càller. Biblioteca Francescana Sarda, 1987, I, 1, pp. 9-39; PIRAS, C. Il testamento di Violante Carroç contessa di Quirra. Biblioteca Francescana Sarda, 1988, II, 1-2, pp. 19-53). Sulla contessa Violante e il castello di Quirra si veda anche LEDDA, M. “Sa Marchesa”. Vita e vicissitudini della contessa di Quirra Violante Carròs. Dolianova: Grafiche del Parteolla, 2009 e SECCI PIRAS, L. Quirra. Storia del castello e della contessa Violant. Dolianova: Grafiche del Parteolla, 2008, con bibliografia anteriore. Ringrazio Carmen Morte García e Carolina Naya (Universidad de Zaragoza) per il sostegno finora prestatomi.
[3] MELE, M. G. I Carròs-Centelles e la Sardegna ai tempi di Ferdinando II d’Aragona e di Carlo V d’Asburgo. In: MELE, M. G. ed. Élites urbane e organizzazione sociale in area mediterranea fra tardo medioevo e prima età moderna, atti del seminario di studi (Cagliari, 1-2 novembre 2011). Cagliari: CNR- ISEM, 2013, p. 449.
[4] ACA, 3678, Itinerum Sigilli Secreti 16, f. 63r.
[5] L’occupazione iberica di Bugía (Béjaïa) durò dal 1510 e fino al 1555, quando la città passò sotto il controllo turco.
[6] ZURITA, J. Los cinco libros postreros de la Historia del Rey Don Hernando el Catholico. Zaragoza: D. Dormer, t. VI, 1670, pp. 345r e 399r-400r.
[7] GALÍ, D.; LACUESTA, R.; PIERA M. El Palau del Comtes i la formació de la vila de Centelles. Centelles: Ajuntament de Centelles; Edicions El Portal, SL, 2014, pp. 43-44. Sul palazzo Centelles a Barcellona: FLUVIÀ I ESCORSA (DE), A; GONZÁLEZ VIRÓS, I.; VIVAS, P. El Palau Centelles. Barcelona: Consell Consultiu de la Generalitat de Catalunya, 2002. In riferimento alla residenza di Guglielmo Raimondo Carroz a Barcellona si veda anche SAIU DEIDDA, A. Per l’archivio di S. Francesco di Stampace a Cagliari: un inedito documento del Cinquecento su un retablo per l’altare maggiore. Biblioteca Francescana Sarda, 1988, II, 1-2, p. 62, dove lo si dice Barcinonae populatus.
[8] MELE, M. G. rif. 3, pp. 449-452 e 460-461.
[9] PIRAS, C. rif. 2, p. 37. L’inventario dei beni ritrovati all’interno delle sue dimore di Centelles (Barcellona) è in ACA, Diversos, Centelles-Solferino, Lig. CENT-9 (22 giugno 1565).
[10] … pro solvendis expensis eiusdem fabricationis, depictionis, deaurationis et aliorum sumptuum et usque ad integram perfectionem, appositionem et affictionem, faciendis et solvendis et donec dictae expensae integrae solutae vel satisfactae fuerint (SAIU DEIDDA, A. rif. 7, p. 63) Il documento nulla dice né sui tempi previsti per la commissione materiale dell’opera, né sulle sue caratteristiche. Ci si preoccupava unicamente di specificare la fonte della rendita: un censo con il quale si era indebitato, nei confronti del conte di Quirra, l’allora visconte di Sanluri, Jerónimo de Castelvì.
[11] Sui prezzi di mercato dei retabli eseguiti in Sardegna resta ancora valido ARU, C. La pittura sarda del Rinascimento (II). Archivio Storico Sardo, 1926, 16, pp. 179-186 (le cifre si assestano fra le 550 e le 775 lire per retabli d’impegno in qualche modo equiparabile al caso in analisi). Negli anni ’70 del XVI secolo, nella corona d’Aragona, 25 ducati erano equivalenti, grosso modo, a 26 lire (ANES, G. (et al.). Monedas Hispanicas. 1475-1598, catalogo dell’esposizione. Madrid: Banco de España, 1987, p. 86). Si è già ipotizzato un certo ritardo nell’attuazione di quanto aveva stabilito il viceré Nicolau Carroz nel suo testamento del 1466, in cui disponeva la fondazione a Cagliari di un convento di francescani Osservanti con annessa chiesa e comprendendo le spese per tutti gli arredi. Che quel dispositivo abbia avuto esito, dopo la morte di Nicolau, è assicurato da una bolla papale di Sisto IV del 1479, in cui si replicavano le ultime volontà testamentarie, cui ebbe seguito la costruzione del convento e di quella importante chiesa che otterrà il titolo di Santa Maria de Jesus (completata fra il 1487 e il 1497). Si cita l’episodio, anche in funzione delle relazioni parentali con i protagonisti della presente trattazione (SCANU, M. A. Il retablo della Porziuncola nella Pinacoteca Nazionale di Cagliari. Rilettura delle vicende e dell’iconografia. Biblioteca Francescana Sarda, 2013, XV, pp. 136-140).
[12] VIRDIS, F. Due documenti inediti del 1681 per l’altare maggiore di S. Francesco di Stampace. Biblioteca Francescana Sarda, 1997, VII, pp. 119-132; SPANO G. Guida della città e dintorni di Cagliari, Cagliari: A. Timon, 1861, p. 178. Sulle relazioni fra i Borja e la Sardegna: MELE, M. G.; MELONI, M. G. La famiglia Borgia nel regno di Sardegna. Potere feudale e ruolo istituzionale. In Alessandro VI: dal Mediterraneo all’Atlantico, atti del convegno (Cagliari, 17-19 maggio 2001). Roma: Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Direzione Generale per gli Archivi, 2004, pp. 101-114; FUERTES BROSETA, M. Más allá de las fronteras. Una aproximación a los lazos nobiliarios entre Valencia y Cerdeña en el siglo XVII. In FORTEA PÉREZ, J. I.; GELABERT GONZÁLEZ, J. E.; LÓPEZ VELA, R; POSTIGO CASTELLANO E., coord. Monarquías en conflicto: linajes y noblezas en la articulación de la Monarquía Hispánica. Madrid: Fundación Española de Historia Moderna; Universidad de Cantabria, 2018, p. 939.
[13] SAIU DEIDDA, A. rif. 7, p. 62.
[14] Si trattava di un Arcangelo Michele e un San Francesco che riceve le stigmate (SPANO, G. rif. 12, p. 177). L’Arcangelo Michele venne trafugato nel 1977.
[15] SERRA, R. Pittura e scultura dall’Età romanica alla fine del ‘500. Nuoro: Ilisso, 1990 (con schede di approfondimento curate da Roberto Coroneo), p. 219, sch. 101.
[16] ARU, C. rif. 11, pp. 180-181. Si tratta delle tre tavole del retablo di Nostra Senyora de la Neu, proveniente da una cappella del chiostro del medesimo convento francescano.
[17] DELOGU, R. Michele Cavaro (Influssi della pittura italiana del Cinquecento in Sardegna). Studi Sardi, 1937, XV, pp. 77-78; Pinacoteca Nazionale di Cagliari, catalogo, I. Cagliari: Janus 1988, pp. 54-55.
[18] Più affini a quella che è giusto considerare fra le ultime opere eseguite da Pietro Cavaro (in collaborazione con aiuti di bottega e, forse, di suo figlio Michele): il Retablo di San Pietro per la chiesa parrocchiale di Suelli, che risalirebbe a data precedente il maggio 1538, quando Pietro risulta già defunto (ZANZU, G.; TOLA, G. Pittura del Cinquecento a Cagliari e provincia, catalogo della mostra. Genova: SAGEP, 1992, pp. 43-68).
[19] SPANO, G. rif. 12.
[20] PASOLINI, A. La diaspora degli arredi. In: S. Francesco di Stampace (1861-1991), Quaderno 4/91 della SBAAAS per le Province di Cagliari e Oristano. Cagliari: Società Poligrafica Sarda, 1991, pp. 23-39.
[21] PESCARMONA, D. La Pinacoteca Nazionale di Cagliari: Formazione, condizionamenti espositivi e problemi storiografici. In: Cultura quattro-cinquecentesca in Sardegna. Retabli restaurati e documenti. Cagliari: SBAAAS, 1994, pp. 55-59.
[22] SPANO, G. rif. 12, pp. 171, 178 e 181. Di questo lungo periodo di ‘ammodernamenti’ depravati fece parte anche la creazione, nel 1837, di un magazzino, al tempo del guardiano Mocci, quando lo Spano salvò dal rogo le tre tavole dette di San Saturno di Francesco Pinna, depositatevi dal frate, scultore e architetto Antonio Cano; il rifacimento dell’altare della Purissima, con la rimozione di antiche tavole che abbiamo già citato; lo smembramento di un altro altare di cui lo Spano riuscì a salvare un Sant’Agostino e un San Gregorio Magno dipinti a mezzo busto (SPANO, G. Storia dei pittori sardi e catalogo descrittivo della privata pinacoteca. Cagliari: A. Alagna, 1970, pp. 32, 36-37).
[23] SPANO, G. rif. 12, p. 180.
[24] Non era certamente questa l’intitolazione originaria della cappella, in quanto il conventuale Bonaventura da Potenza (1651-1711) divenne beato nel 1775.
[25] Pinacoteca Nazionale di Cagliari rif. 17, p. 74.
[26] STEFANI, G. La chiesa nell’Ottocento: cronaca di un crollo annunciato. In: S. Francesco di Stampace (1861-1991), Quaderno 4/91 della SBAAAS per le Province di Cagliari e Oristano. Cagliari: Società Poligrafica Sarda, 1991, pp. 7-22.
[27] PUSCEDDU, E. Il Retablo di San Bernardino, per uno sguardo alla Sardegna ai tempi del tardo gotico catalano. In: ALCOY, R.; BESERAN, P. eds. Imatges indiscretes. Art i devoció a l’Edat Mitjana, Barcelona: Universitat de Barcelona, 2011, p. 158.
[28] Peraltro, un dislivello rispetto al pavimento è chiaramente indicato nella pianta del Pizzagalli.
[29] La statua inserita nella nicchia era, probabilmente, quella documentata nel 1633 con San Francesco che riceve le stigmate ab sas plagas i serafí ab la sua peaña y corona tot dorat (VIRDIS, F. Artisti napoletani in Sardegna nella prima metà del Seicento. Dolianova: Grafiche del Parteolla, 2002, p. 131).
[30] Senza tener conto del fatto che, potenzialmente, l’opera potesse avere anche una predella.
[31] FADDA, L. cur. Parrocchia Immacolata Concezione in Barumini. Guida alla visita. Ortacesus: Nuove Grafiche Puddu, 2010, pp. 18-23; SCANO, M. G. Pittura e scultura del ‘600 e del ‘700. Nuoro: Ilisso, p. 25.
[32] SPANO, G. rif. 12, p. 176.
[33] Egesippo, in Eusebio, Storia ecclesiastica, II, 23, 18.
[34] DELOGU, R. rif. 17, pp. 86-88, n. 2.
[35] SERRA, R. Su taluni aspetti del Manierismo nell’Italia meridionale. Annali della Facoltà di Lettere, Filosofia e Magistero, 1967, XXX, pp. 7-13.
[36] MALTESE, C.; SERRA, R. Episodi di una civiltà anticlassica. In: BARRECA, F. et alii cur. Sardegna. Milano: Electa, 1969, p. 282.
[37] CORDA, M. Arti e mestieri nella Sardegna spagnola. Documenti d’archivio. Cagliari: CUEC, 1987, p. 21; SCANO, M. G. Nota sul “ritratto” di Eleonora d’Arborea e altri dipinti di Bartolomeo Castagnola. Studi Sardi, 1973, XXII, p. 3 e segg. dell’estratto.
[38] Pinacoteca Nazionale di Cagliari rif.17, pp. 72-74.
[39] SERRA, R. rif. 15, pp. 266 e 269. L’Incoronazione restava ancora come opera proveniente da un polittico distinto.
[40] SCANO, M. G. rif. 31, p. 17; GRUMO, G. cur. L’Andata al Calvario di Formia. Lo studio e il restauro di un’opera problematica. Formello (RM): Miligraf, 2009.
[41] DONÒ, A. Scipione Pulzone (1545-1598), il pittore della «Madonna della Divina Provvidenza». Barnabiti Studi, 1996, XIII, p. 91.
[42] LEONE DE CASTRIS, P. Pittura del Cinquecento a Napoli. 1540-1573: fasto e devozione. Napoli: Electa, 1991, pp. 44, 81, 297, 324; SEGNI PULVIRENTI, F.; SERRELI, M. Pinacoteca Nazionale di Cagliari. Roma: Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1992, pp. 37-43. Altrettanto faceva Luigi Agus, associando il polittico con il pagamento di un’opera importata da Napoli a Cagliari nel 1579; ma la cifra riportata (56 ducati, comprensivi di tutte le spese affrontate per il trasporto), appare davvero esigua in riferimento alle tavole di cui si va discorrendo (AGUS, L. Rinascimento in Sardegna. Saggi di storia, arte e letteratura. Cagliari: Arkadia, 2009, p. 257; VIRDIS, F. Artisti e artigiani in Sardegna in Età spagnola. Serramanna: 3 ESSE, 2006, p. 225).
[43] PILLITTU, A. La pittura in Sardegna e in Spagna nel ‘500 e il Crocifisso di Nicodemo. Ed. digitali Lulu, 2014, p. 209.
[44] Il termine viene utilizzato per la prima volta in GERE, J. A. Taddeo Zuccaro. His development studied in his drawings. Chicago: University of Chicago Press, 1969.
[45] ZERI, F. Pittura e Controriforma. L’”arte senza tempo” di Scipione da Gaeta. Torino: Einaudi, 1957.
[46] DELABORDE, H. Marc-Antoine Raimondi. Etude Historique et Critique suivie d’un catalogue raisonné des oeuvres du maitre. Paris: Librairie de l’Art, 1888, nn. 47-48.
[47] HARPRATH, R. Cristo risorto e i dodici Apostoli. In: Raffaello in Vaticano, catalogo della mostra. Milano: 1984, pp. 352-356.
[48] COSTA, M. M. Les sepultures... rif. 2, pp. 12, 27-28. E’ da tenere in conto che l’altro figlio si chiamava Filippo (come il padre) e che questi due santi (Giacomo il Minore e Filippo, entrambi apostoli) sono ricordati assieme, dal calendario liturgico, il giorno 3 di maggio.
[49] GARCÍA CUADRADO, M. D. San Cristóbal: significado iconológico e iconográfico. Antigüedad y cristianismo: Monografías históricas sobre la Antigüedad tardía, 2000, 17, pp. 343-366.
[50] MIQUEO, C. Juan Tomás Porcell. In: Diccionario Biográfico electrónico de la Real Academia de la Historia [online] [consultato: 12/06/2020]. Disponibile in: http://dbe.rah.es/biografias/14307/juan-tomas-porcell.
[51] DE MAGISTRIS, P. Dalla peste alla festa. Storia di terrori e di speranze. La devozione per Sant’Efisio. Cagliari: Della Torre, 1993, p. 61; MANCONI, F. Castigo de Dios. La grande peste barocca nella Sardegna di Filippo IV. Roma: Donzelli, 1994, p. 115 e segg.
[52] DELABORDE, H. rif. 46, n. 68; BELLINI, P. L’opera incisa di Giorgio Ghisi. Bassano del Grappa: Tassotti, 1998, n. 27.
[53] Giuseppe Valeriano visse in Spagna dove entrò nell’Ordine dei Gesuiti e, più tardi, diventò una sorta di sovrintendente ufficiale per le fabbriche dell’Ordine (PIRRI, P. Giuseppe Valeriano S. I. Architetto e pittore1542-1596. Roma: Institutum Historicum S. I., 1970).
[54] Anonymous, Italian, 16th century. Crucifixion, 1541. In: The Metropolitan Museum of Art. [online] [consultato: 12/06/2020]. Disponibile in: https://www.metmuseum.org/art/collection/search/371086.
[55] Marelli, A. The coronation of the Virgin accompanied by putti and musical angels below, 1567-1572. In: The British Museum. [online] [consultato: 12/06/2020]. Disponibile in: https://www.britishmuseum.org/collection/object/P_Ii-5-101.
[56] Su queste tematiche risulta insostituibile MANCONI F. La Sardegna al tempo degli Asburgo. Secoli XVI-XVII. Nuoro: Il Maestrale, 2010, pp. 223-249 (la traduzione in castigliano dell’opera è intitolata Cerdeña: un reino de la Corona de Aragón bajo los Austrias, edita, sempre nel 2010, da Publicacions de la Universitat de València). Quanto all’ereditarietà degli incarichi ufficiali, si veda il caso di quello di Procuratore che sarebbe rimasto per tanto tempo in mano ai Castelvì. E’ del 1558 l’istituzione di una Tesoreria generale, indipendente da quella d’Aragona, con l’affido della luogotenenza agli aragonesi de Ruecas (SCANU M. A. Tracce culturali aragonesi in Sardegna: le chiese di Santa Lucia e dell’Immacolata Concezione del Castello di Cagliari e il loro ‘indotto’ sulle vicende sarde cinque-seicentesche. Theologica & Historica, 2019, XXVIII, pp. 449-471). A proposito di novità istituzionali è importante ricordare la creazione, nel 1564, della Reale Udienza di Sardegna, composta da tre giudici, non a caso provenienti dalla penisola iberica.
[57] La relativa subordinazione del regno di Sardegna a quello d’Aragona veniva già esplicitata da Juan Beneito e ribadita, più tardi, da Manuel Rivero Rodríguez (BENEYTO J. Las instituciones de los paises de la corona de Aragón en el siglo XVI. In VIII Congreso de Historia de la Corona de Aragón, La corona de Aragón en el siglo XVI, 3.1. Valencia: Artes Gráficas, 1973, p. 157; RIVERO RODRÍGUEZ, M. El consejo de Aragón y la fundación del Consejo de Italia. Pedralbes: Revista d’historia moderna, 1989, 9, p. 60). Il caso sardo risultava, nella pratica, più simile a quello valenciano (GUIA MARÍN, L-J. Los estamentos sardos y valencianos. Analogía jurídica y diversidad institucional. In ANATRA, B.; MURGIA G. Sardegna, Spagna e Mediterraneo. Dai Re Cattolici al Secolo d’Oro. Roma: Carocci, 2004, soprattutto p. 262) che - benché con rilievo istituzionale non confrontabile all’Aragona o alla Catalogna - possedeva, tuttavia, una Deputazione, quale organismo delegato da parte delle Cortes parlamentari (istituzionalizzata nel 1418). Nell’ottobre 2018, nella circostanza dei 600 anni dall’istituzione della Deputazione, si è tenuto a Valencia un congresso internazionale dal titolo La voz del reino. Representación política, recursos públicos y construcción del estado (atti in corso di stampa), il cui programma è visionabile all’indirizzo https://www.uv.es/gv600/fitxers/GV600_PROG_CAST.pdf.
[58] MANCONI F. rif. 56, pp. 249, 269. Sempre dello stesso autore, sul regno di Sardegna nel XVI secolo: MANCONI, F. «De no poderse desmembrar de la Corona de Aragón»: Sardegna e Paesi Catalani, un vincolo lungo quattro secoli. Istituzioni e società nella Sardegna moderna econtemporanea. Archivio Sardo. Rivista di studi storici e sociali, 1999, 1, pp. 43-65. Altre opere collettive di utile consultazione: MANCONI, F., cur. La società sarda in età spagnola, Quartu: Musumeci; Cagliari: Consiglio Regionale della Sardegna, 1992-1993 (2 voll.) e CARBONELL J; MANCONI F. I Catalani in Sardegna. Cagliari-Cinisello Balsamo: Regione Autonoma della Sardegna; Generalitat de Catalunya; Silvana editoriale, 1984. Sugli intellettuali citati nel testo risulta ancora valido: CADONI, E.; TURTAS, R. Umanisti sassaresi del ‘500: le “biblioteche” di Giovanni Francesco Fara e Alessio Fontana. Sassari: Gallizzi, 1988.
[59] Per l’analogo fenomeno verificatosi ai tempi dei Re Cattolici, SCANU, M. A. Il retablo di Tuili. Depingi Solemniter. Uomini, viaggi e vicende attorno al Maestro di Castelsardo, Tuili, Iskra, 2017, pp. 48-61.
[60] ALBERTI, O. P. La Sardegna e la storia dei Concili. Roma: Libreria Editrice della Pontificia Università Lateranense, 1964, pp. 110-112.
[61] GAROFALO, E. Le architetture della Compagnia di Gesù in Sardegna (XVI-XVIII secolo). In: ALVARO ZAMORA, M. I.; IBÁÑEZ FERNÁNDEZ, J.; CRIADO MAINAR, J. F. La arquitectura jesuítica: Actas del Simposio Internacional, Zaragoza, 9, 10 y 11 de diciembre de 2010. Zaragoza: Institución “Fernando El Católico”, 2012, pp. 166-175, con bibliografia anteriore. Sul tema, in generale: TURTAS, R. I Gesuiti in Sardegna. 450 anni di storia (1559-2009). Cagliari: CUEC, 2010.
[62] Su questo tema: BRIZZI, G. P.; MATTONE, A., dirr. Le origini dello studio generale sassarese nel mondo universitario europeo dell’età moderna. Bologna: CLUEB, 2014, con bibliografia anteriore.
[63] PUDDU, R. La guerra mediterranea e la difesa di Malta. Mediterranea, 2003, XV, 1-2, pp. 39-49.
[64] VIGANÒ, M. “El fratin mi ynginiero”. I Paleari Fratino da Morcore ingegneri militari ticinesi in Spagna (XVI-XVII secolo). Bellinzona: Edizioni Casagrande, 2004, pp. 171-196. E’ in questa ambientazione che, nell’inverno 1573-1574, si pone la presenza a Cagliari dello scrittore Miguel de Cervantes, rifugiatosi in Sardegna assieme al tercio di don López de Figueroa.
[65] AGUS, L. rif. 42, pp. 280-282.
[66] CADONI, E. Umanisti e cultura classica nella Sardegna del ‘500: 1.: Il “Llibre de spoli” di Nicolò Canyelles. Sassari: Edizioni Gallizzi, 1989, p. 32.
[67] VIGANÒ, M. rif. 64, p. 193; SEGNI PULVIRENTI, F.; SARI, A. Architettura tardogotica e d’influsso rinascimentale. Nuoro: Ilisso, 1994, pp. 198-207.
[68] LEPIARCZYK, J. Barnardoni Giovanni Maria, detto Bernardone. In: Dizionario Biografico degli Italiani. [online] [consultato: 12/06/2020]. Disponibile in: http://www.treccani.it/enciclopedia/bernardoni-giovanni-maria-detto-bernardone_(Dizionario-Biografico)/; ELIAS, A. Il Collegio Gesuitico di Santa Croce nel Castello di Cagliari. ArcheoArte, 2010, 1, p. 201.
[69] Si veda la nota 11 del presente studio.
[70] VIGANÒ, M. rif. 64, pp. 178-183.
[71] DEVILLA, C. I Frati Minori conventuali in Sardegna, Sassari: Gallizzi, 1958, pp. 97-100, 114.
[72] MELE, M. G. rif. 3, pp. 454-455; ORTU, L., cur. Il Parlamento del viceré Giovanni Coloma barone d’Elda (1573-1574), Acta Curiarum Sardiniae 10/I-II. Sassari: EDI.CO.S.; Consiglio Regionale della Sardegna, 2005.
[73] Archivo Histórico de la Nobleza, (AHN), Osuna, C.419, D.443.
[74] GALIÑANES GALLÉN, M. Los Diez Libros de Fortuna de Amor. Edición y estudio. Roma: Aracne, 2014, p. 44, n. 5. Una copia delle capitolazioni matrimoniali è in AHN, Fernan Nuñez, C.173, D.31.
[75] GOMEZ URDAÑEZ, C. Arquitectura civil en Zaragoza en el siglo XVI. Zaragoza: Ayuntamiento de Zaragoza, 1987, pp. 221-225; SCANU, M. A. Aragón en Cerdeña. L’influsso culturale aragonese in Sardegna durante il regno di Ferdinando II. Aragón en la Edad Media, 2017, 28, pp. 265-286; BALTAR RODRÍGUEZ, J. F. Artal de Alagón y Martínez de Luna. In: Diccionario Biográfico electrónico de la Real Academia de la Historia [online] [consultato: 12/06/2020]. Disponibile in: http://dbe.rah.es/biografias/7311/artal-de-alagon-y-martinez-de-luna. Artál de Alagón (1533-1596) fu cofondatore del collegio gesuitico di Graus, fondò a Saragozza la casa de recogidas di Nostra Signora della Misericordia e scrisse opere a tematica spirituale. Venne sepolto nel convento francescano di Pina de Ebro, assecondando il suo dettato testamentario.
[76] Una clausola testamentaria di Luis Carroz risalente al 1578 è in AHN, Fernan Nuñez, C.1761, D.4.
[77] LOSTIA, M. Dizionario onomastico familiare, lemma ‘Carroç’ [online] [consultato: 11/06/2020]. Disponibile in: http://www.araldicasardegna.org/genealogie/dizionario_onomastico_familiare/carroz.pdf; una copia del testamento di Francisca (Cagliari, 1586) e la sua pubblicazione nella chiesa di Santa Coloma di Centelles (1588) sono, rispettivamente, in ACA, Diversos, Sástago, 106 (LIG 020/029) e ACA, Diversos, Sástago, Pergaminos, carp. 07, perg. n. 340 (LIG 020/027). Ebbero due figlie femmine e, per questo motivo, alla sua morte i feudi sardi passarono a suo cugino, Gioacchino de Centelles, con contestuali battaglie legali intentate dalle figlie di Luis (AHN, Fernan Nuñez, C.243, D.15). Da Gioacchino la contea di Quirra passò a sua figlia Alemanda, che nel suo testamento rendeva erede suo marito Cristoforo Centelles e i figli anche avuti dopo la sua morte. Nel 1604 venne elevata in marchesato e, forse in questa occasione, i conti si recarono a venerare il celebre Crocifisso di Oristano, lasciando ai frati una donazione perpetua, impegnando anche i loro eredi a consegnare 30 starelli di grano all’anno e a mantenere sempre accesa una lampada d’argento davanti alla statua, recante il loro stemma. Anche Alemanda, morta avvelenata dal marito, venne sepolta nel San Francesco di Stampace (PIRAS, C. Il testamento di Alemanda Carroç y de Centelles marchesa di Quirra. Biblioteca Francescana Sarda, 1990, IV, pp. 61-86; SANZ VIÑUELAS. V. Crimen, ambición y poder. Los últimos Carròs de Centelles, marqueses de Quirra y Nules (1561-1674). In: PÉREZ SAMPER M. Á.; BETRÁN MOYA J. L., eds. Nuevas persèectivas de investigación en Historia Moderna: Economia, Sociedad, Política y Cultura en el Mundo Hispánico, Barcelona: Universitat de Barcelona; Fundación Española de Historia Moderna, 2018, pp. 228-238).
[78] ELIAS, A. rif. 68, pp. 201-202. Sull’antico palazzo dei Carroz di via Dei Genovesi, si veda SCHIRRU, M. Le residenze signorili nella Sardegna moderna (XVI-XVIII secolo). Cagliari. Sassari: Delfino, 2017, pp. 38-39, ma le vicende edilizie descritte sono successive alla cronologia presa in considerazione in questo studio.
[79] ELIAS, A. rif. 68, pp. 198-199; BURRIEZA SÁNCHEZ, J. F. Baltasar Piñas. In: Diccionario Biográfico electrónico de la Real Academia de la Historia [online] [consultato: 12/06/2020]. Disponibile in: http://dbe.rah.es/biografias/20890/baltasar-pinas.
[80] ELIAS, A. rif. 68, p. 202 e doc. 3, pp. 206-207.
[81] GALLERI, C. Francesco Pinna. Un pittore del tardo Cinquecento in Sardegna. Capoterra: Pic Studio, 2000, doc. 39, pp. 69-70.
[82] GALIÑANES GALLÉN, M. rif. 74.
[83] LÓPEZ PÉREZ, M. Angelo D’Ainot. El falsario alquimista que quiso trabajar para Felipe II. Studia Hermetica Journal, 2016, VI, 2, pp. 106-113; RODRÍGUEZ GUERRERO, J.; CASTRO SOLER, E. La Epistola super quinta essentia de Luis de Centelles. Edición y estudio. Azogue, 2002-2007, 5, pp. 70-89; CASTRO SOLER, E.; RODRÍGUEZ GUERRERO, J. Luis de Centelles y las Coplas de la Piedra Philosophal. Azogue, 2001, 4, s.n.p.
[84] Un’ipotesi non più sostenibile lo vorrebbe originario della rocca toscana della Leccia (PALESATI, A.; LEPRI, N. Matteo da Leccia. La vita e le opere. Pomarance: Associazione Turistica “Pro Pomarance”, 1999).
[85] LOHMANN VILLENA, G. Noticias inéditas para ilustrar la historia de las Bellas artes en Lima durante los siglos XVI y XVII. Revista histórica, 1940, XIII-XIV, p. 23. E’ lecito ipotizzarne la discendenza da Bernart Pérez, un ufficiale dell’amministrazione finanziaria di Alfonso il Magnanimo, documentato con numerose mansioni in Puglia fra il 1437 e il 1446 (CHILÀ, R. Une cour à l’épreuve de la conquête: la société curiale et Naples, capitale d’Alphonse le Magnanime (1416-1458), [Tesis doctoral, Université Paul Valéry - Montpellier III] 2015, p. 223).
[86] Baglione, nel XVII secolo, affermava che studiate le cose venetiane si trasferì a Roma. Fu dal card. Bambiglietti [scil. Rambouillet, cioè Charles d’Angennes (1530-1587), N.d.R.] condotto a Corneto et ivi operò molte cose et altre a Viterbo et ne’ luoghi vicini (BAGLIONE, G. Le vite de’ pittori, scultori et architetti. Dal Pontificato di Gregorio XIII del 1572 fino a’ Tempi di Papa Urbano Ottavo nel 1642. Ristampa dell’edizione originale del Baglione con le postille del Bellori... Roma: Istituto d’Archeologia e Storia dell’Arte, 1995 [prima ed. 1642], p. 31).
[87] TOSINI, P. Presenze e compresenze tra Villa d’Este e il Gonfalone. Bollettino d’Arte, 2005, 132, pp. 43-58. Karel Van Mander, suo più antico biografo, gli attribuiva anche decorazioni nella Villa Mondragone di Frascati, proprietà del cardinale Marco Sittico Altemps (MANDER (VAN), K. Het schilder boeck. Utrecht: Davaco Publishers, 1969 (rist. anast. della prima ed. Haarlem, 1604), c. 193r/v).
[88] PILLITTU, A. rif. 43, pp. 102-109. E’ questo il nome con cui è più conosciuta la scultura oristanese. Dal 1912 è intitolata proprio al SS. Crocifisso la Provincia sarda dei Conventuali (DEVILLA, C. rif. 71, p. 143; ZUCCA, U., cur. San Francesco e i Francescani in Sardegna, Oristano: Edizioni Biblioteca Francescana Sarda, 2001, p. 53).
[89] Già nel 1550 Sigismondo Arquer segnalava nella Sardiniae Brevis Historia et Descriptio, all’interno della Cosmographia Universalis di Sebastian Münster, a proposito di Oristano: est in hac urbe magna Crucifixi statua aliquantulum vetusta, quam ferunt factam a Nicodemo, atque ob id magna est populi veneratione (SARI, A. Crocifissi dolorosi della Sardegna. Il Nicodemo di Oristano. Ghilarza: Iskra, 2015, p. 27).
[90] DEVILLA, C. rif. 71, p. 344.
[91] Pierpont Morgan Library, inv. I, 74 (MASON RINALDI, S. Palma il Giovane. L’opera completa, Milano: Electa, 1984, p. 161 tav. 1).
[92] STASTNY MOSBERG, F. Estudios de arte colonial. Lima: Museo de Arte de Lima; Instituto Francés de Estudios Andinos, 2013, p. 63.
[93] STASTNY MOSBERG, F. rif. 92, pp. 53-68.
[94] MALTESE, C.; SERRA, R. rif. 36.
[95] Dal San Michele di Sant’Angelo a Nilo derivano anche alcune xilografie raffiguranti Perseo, su disegni dello stesso Marco Pino (ZEZZA, A. Marco Pino. L’opera completa. Napoli: Electa Napoli, 2003, pp. 180-181; 192; 195; 213; 229; 249; 255, n. 48; 266-267; 315; 326).
[96] GERE, J. A.; POUNCEY, PH. Italian Drawings in the department of prints and drawings in the British Museum - Artists Working in Rome c.1550 to c.1640. London: Trustees of the British Museum, 1983, n. 217, pl. 205.
[97] MANDER (VAN), K. rif. 87, c. 193v.
[98] The siege of Malta: Matteo Perez d’Aleccio’s frescoes at the Grand Master’s Palace, Valletta 1565, Sliema: Salesians Don Bosco; La Valletta: Heritage Malta, 2009; MAIORANO, L. Matteo Perez d’Aleccio. Pittore Ufficiale del Grande Assedio di Malta, Alezio: Lupo, 2000. Otto ‘bozzetti’ (?) per le scene principali sono conservati nel National Maritime Museum, Greenwich (PERCIVAL-PRESCOTT, W.; NAISH, G. The Maritime Siege of Malta 1565. London: National Maritime Museum, 1970); un disegno per la figura della Nobiltà – erroneamente attribuito a Giovanni Battista Crespi - si conserva presso il Museo Pushkin di Mosca.
[99] Gerolamo Cassar entrò a far parte dell’Ordine di Malta nel 1569 e fu anche autore del progetto del Palazzo del Gran Maestro, così come di altre importanti architetture ispirate al manierismo italiano, come la cattedrale di San Giovanni (ELLUL, M. In search of Gerolamo Cassar. An unpublished manuscript at the State Archives of Lucca. Melita Historica, 2004, XIV, 1, pp. 29-51).
[100] VIGANÒ, M. rif. 64, pp. 142-149.
[101] Gli viene attribuito anche un Cristo nel Limbo, sempre parte della quadreria della cattedrale de La Valletta (PALESATI A.; LEPRI, N. rif. 84, pp. 78-82).
[102] CANALDA I LLOBET, S. Entre Roma y Malta, el mecenazgo artístico del obispo Tommaso Gargallo (+1614). In: ALMARCHA, E.; MARTÍNEZ BURGOS, P.; SAINZ, E. coord. El Greco en su IV Centenario. Patrimonio hispánico y diálogo intercultural. Cuenca: Ediciones de la Universidad de Castilla-La Mancha, 2016, pp. 268-271.
[103] Portal de Sotheby’s [online] [consultato: 11/06/2020]. Disponibile in: https://www.sothebys.com/en/auctions/ecatalogue/2018/arts-of-the-islamic-world-l18223/lot.113.html.
[104] Il rientro nella penisola italiana coincise con la caduta in disgrazia del Gran Maestro de La Cassiére, incarcerato pochi mesi dopo (STASTNY MOSBERG, F. rif. 92, pp. 71, 75-76 e 82).
[105] Vi viene citato anche il 15 e 18 febbraio dell’anno successivo. Baglione riporta che, in quanto confratello, realizzò per la Rotonda un tondo, dentro s. Giuseppe e Christo, a guazzo formati (BAGLIONE, G. rif. 87, p. 32)
[106] VANNUGLI, A. L’Oratorio del Gonfalone. In: CASSANELLI, L.; ROSSI, S. Oltre Raffaello: aspetti della cultura figurativa del Cinquecento romano, catalogo della mostra. Roma: Multigrafica, 1984, p. 163.
[107] MAHON D. Studies in Seicento Art and Theory. London: Warburg Institute, University of London, 1947, p. 160.
[108] STASTNY MOSBERG, F. rif. 92, p. 72. Su Pulzone si veda ZUCCARI A.; ACCONCI A. cur. Scipione Pulzone. Da Gaeta a Roma alle Corti europee, Roma: Palombi, 2013; ZUCCARI, A. cur. Scipione Pulzone e il suo tempo, atti della giornata di studi (Sapienza Università di Roma, 20 febbraio 2014). Roma: De Luca 2015.
[109] Gli sono stati attribuiti anche gli affreschi dell’abside della chiesa romana di Sant’Eligio degli Orefici (BAGLIONE, G. rif. 87, p. 32): La restituzione a Marco Pino non inficia la partecipazione di Matteo, la cui autoria veniva assicurata dal Baglione: ciò supporterebbe l’ipotesi di una stretta conoscenza fra i due, rendendo intellegibile il fatto che nella documentazione relativa a Villa d’Este, Matteo venga talvolta citato come Matteo de Martus o de Marcus (TOSINI, P. rif. 88, p. 50; ZEZZA, A. rif. 95, n. 51, p. 85).
[110] GANADO, A. Matteo Perez D’Aleccio’s engravings of the Siege of Malta of 1565. In: Proceedings of History Week 1983, 1984; Royal Collection Trust [online] [consultato: 11/06/2020]. Disponibile in: https://militarymaps.rct.uk/search/.
[111] STASTNY MOSBERG, F. rif. 92, pp. 82-83. Si ricordano altre incisioni andate perse ed altre ancora gli vengono attribuite.
[112] In questa logica – e in quella del ricostruirne le relazioni sociali - è interessante seguire le tracce dei personaggi cui l’artista dedica i suoi lavori di incisione, con epigrafi magniloquenti ed encomiastiche: il cardinale Ferdinando dei Medici, incaricato della Propaganda Fide e protettore di Spagna; donna Clelia Farnese, moglie di Giovanni Giorgio Cesarini (a sua volta, figlio di Giuliano e Giulia Colonna); il cardinale Guglielmo Sirleto, bibliotecario della Santa Sede che partecipò al Concilio di Trento; e, in procinto di lasciare Roma per la Spagna, il Legato di Filippo II presso la corte papale Enrique Guzmán, conte di Olivares, cui offrì, nel 1583, la Conversione di San Paolo.
[113] PACHECO, F. Arte de la pintura, (cur. F. J. Sánchez Cantón), II, Madrid: Instituto Valencia de Don Juan, 1956 (prima ed. Sevilla, 1649), p. 54. Pacheco riporta come anno di arrivo a Siviglia il 1584. Sulla permanenza di Matteo Pérez a Siviglia si veda anche SERRERA CONTRERAS, J. M. Pinturas y pintores del siglo XVI en la catedral de Sevilla. In: ANGULO ÍÑIGUEZ,D.; CHUECA GOITIA, F. La catedral de Sevilla. Sevilla: Ediciones Guadalquivir, 1984, p. 363 e VALDIVIESO, E. Historia de la pintura sevillana. Sevilla: Ediciones Guadalquivir, 1986, pp. 102-105.
[114] Il cartiglio è accompagnato da un pappagallo, ricordando la celebre incisione con Adamo ed Eva di Dürer… La fama del San Cristoforo di Siviglia avrebbe raggiunto anche la penisola italiana, come sembrerebbe provare un’incisione di Guido Reni (ALGARÍN GONZÁLEZ, I. Mural de San Cristóbal de la Catedral de Sevilla de Mateo Pérez Alesio (1583). Fuentes visuales y análisis iconográficos. Temas de estética y arte, 2016, 30, p. 286); ma in realtà la figura del santo è citazione da Cesare da Sesto.
[115] ALGARÍN GONZÁLEZ, I. Nuevas visiones y aportaciones en la pintura “La Batalla de Clavijo”, de la Iglesia de Santiago el Viejo de Sevilla. Laboratorio de Arte, 2015, 27, pp. 145-146. Si veda anche GÓMEZ DARRIBA, J. Santiago Matamoros en Sevilla. Mito, arte y devoción. Imago, 2018, 10, pp. 154-159.
[116] STASTNY MOSBERG, F. rif. 92, pp. 69, 49-52, 99-105, con bibliografia anteriore.
[117] VARGAS UGARTE, R. Ensayo de un diccionario de artífices coloniales de la América meridional. Lima: Baiocco, 1947, p. 96.
[118] Si è anche ipotizzato che il vero ‘oro’ che Matteo volle raggiungere fosse il mercurio, di cui è ricca quella terra, funzionale alla pittura ma necessario anche alle sperimentazioni alchemiche (ALGARÍN GONZÁLEZ, I. El “testamento” de Mateo Pérez de Alesio: pintura, amalgama y minería en el último tercio del siglo XVI. Temas americanistas, 2018, 40, pp. 70-91).
[119] STASTNY MOSBERG, F. rif. 92, p. 87; portal de ARCA (Arte Colonial Americano) [online] [consultato: 11/06/2020]. Disponibile in: http://52.183.37.55/artworks/2358.
[120] WUFFARDEN, L. E. Dos obras inéditas de Mateo Pérez de Alesio en el monasterio de la Concepción. Historica, 2004, XXIII.1, pp. 179-192.
[121] LOHMANN VILLENA, G. rif. 85, p. 23.
[122] E’ del 1606 l’ultimo contratto di cui si ha notizia, siglato con Juan de Vega de Gunio Lozada per dipingere sette tele per Huánuco. Morì prima del 28 aprile 1616, data in cui venne vergato il testamento di Pedro Pablo Morón, suo principale collaboratore, contrattato a Siviglia fin dal 1583 (STASTNY MOSBERG, F. rif. 92, pp. 78 e 89, n. 20), che dichiara il suo maestro già defunto. Fra le opere realizzate in Perù si ricorda la decorazione di cinque archi della navata della chiesa di San Domingo a Lima, distrutta dal terremoto nel 1746 e quella con storie della Passione di Cristo nella cappella Villegas nella chiesa della Merced, tanto ridipinte da non consentire una valutazione esaudiente, se non per alcune porzioni. Si ricordano lavori anche nella chiesa di Sant’Agostino e nella cattedrale.
[123] ALCALA, L. E.; BROWN, J. Pintura en Hispanoamérica, 1550-1820. Madrid: El Viso, 2014; portal de ARCA (Arte Colonial Americano) [online] [consultato: 11/06/2020]. Disponibile in: http://52.183.37.55/artworks/20130.
[124] MOLINIÉ, A. S. Influences romaines et florentines dans le Nouveau Monde. Les formes italiennes de la Renaissance dans l’art péruvien. In: PEREZ B.; ROSE, S. V.; CLÉMENT, J. P. dir. Des marchands entre deux mondes. Pratiques et représentations en Espagne et en Amérique (XVe-XVIIIe siècles), Paris: P. U. P. S., 2007, p. 125.
[125] Si veda il mascherone pubblicato in PALESATI A.; LEPRI, N. rif. 84, p. 43, ill. 17.
[126] STASTNY MOSBERG, F. rif. 92, pp. 80-81
[127] ZUCCARI A.; ACCONCI A. rif. 108, sch. 37, pp. 360-373.
[128] PARDO Y MANUEL DE VILLENA A.; SUAREZ DE TANGIL Y DE ANGULO F. Índice de pruebas de los caballeros que han vestido el habito de San Juan de Jerusalen (Orden de Malta) en el Gran Priorato de Castilla y León desde el 1514 hasta la fecha. Madrid: Librería de F. Beltrán, 1911, pp. 37 e 40; AHN, OM-SAN_JUAN_DE_JERUSALEN, Exp. 24371.